Dalla Cina all’Egitto, passando per le grandi città americane, le capitali europee e i nostri piccoli centri abitati. Il fenomeno dei coworking – aree attrezzate dove i freelance possono trovare una scrivania e lavorare, incontrarsi, svolgere riunioni con clienti, collaborare e organizzare eventi – non può più essere considerato una moda passeggera. È un fatto strutturale, che si consolida insieme alla crescita dei knowledge worker e del lavoro indipendente. “Non è semplicemente una questione di spazi, ma riguarda le persone e il loro modo di lavorare e fare nuove esperienze di condivisione e collaborazione”, spiega Jean-Yves Huwart, l’organizzatore della Coworking Conference 2011 di Berlino, un meeting internazionale che ha visto la partecipazione di oltre 300 coworker provenienti da 24 Paesi e quattro continenti. La stima elaborata da Deskmag e presentata nelle giornate berlinesi è di 1.129 spazi di coworking al mondo, 531 soltanto negli Usa, 467 in Europa, un’area dove raddoppiano ogni anno, e 70 in Italia.
Atipici
Lavorare insieme fa bene ai freelance
Si perde la sensazione di isolamento, si trovano nuovi contatti e aumenta la produttività individuale. Lo raccontano loro stessi nella seconda Global Coworking Survey condotta da Deskmag e presentata il 3 novembre a Berlino. Più di 1.500 coworker di 52 Paesi hanno confermato un giudizio positivo sulla condivisione dell’ufficio. Voto medio assegnato ai coworking nel mondo: 8,4. I valori principali che si ritrovano sono il senso della comunità (96% dei rispondenti); la libertà (93%); l’indipendenza (86%) e perfino il benessere fisico (85%). In questi spazi non mancano aree di ristoro, per il relax e la collaborazione. I freelance si conoscono quasi tutti per nome, si fidano a lasciare i propri strumenti incustoditi e ottengono anche interessanti miglioramenti nel business. Il 93% sostiene di avere migliorato le proprie reti sociali, l’86% anche quelle di business. Maggiore produttività e perfino maggiore fiducia in se stessi accompagnano spesso un accrescimento delle competenze lavorative. Prima dello spazio si apprezzano i “colleghi” d’ufficio al punto che l’86% degli attuali frequentatori non ha programmato spostamenti per il 2012. Per l’anno prossimo i manager prevedono ulteriori incrementi ma nonostante la fiducia e la crescita degli utenti soltanto il 39% dei coworking fa profitti. Un quarto delle iniziative sono tuttavia no-profit. La maggior parte dei promotori ha messo soldi di tasca propria, una media di 45.800 euro per l’avviamento, e trovato un unico principale concorrente: il tetto di casa, amato ancora dai freelance sedentari.
Dario Banfi, Avvenire, 9 novembre 2011, p.21 (èLavoro).
Scarica l’articolo “Coworking. Lavoro 2.0: libero e condiviso” in formato .PDF.
Leggi anche:
- Coworking beloved by users but not bean counters, survey finds by Jessica Stillman, GigaOM
- First results of Global Coworking Survey by Carsten Foertsch, Deskmag
- The 2nd annual “Global Coworking Survey” (on Prezi) by Carsten Foertsch
Lavoro in frantumi, esce il libro
Ieri sera arriva l’e-mail dell’organizzatore di “Lavoro in frantumi“, un evento che si è tenuto giusto un anno fa a Bologna:
Carissimi, il libro Lavoro in frantumi è finalmente pronto. Se mi fate avere un indirizzo vi spedisco la copia omaggio che spetta a chi ha contribuito con un pezzo.
Beh, buono. Avevo quasi perso le speranze sul destino di questa pubblicazione. Vedere riportato ora il mio intervento a fianco del saggio di Andrew Ross (!!) è una bella sorpresa che mi mette di buon umore. Se siete interessati, trovate informazioni sul sito di Ombre Corte, l’editore. Di seguito vi riporto una scheda del libro:
Lavoro in frantumi
Condizione precaria, nuovi conflitti e regime neoliberista
a cura di F. Chicchi ed E. Leonardi
pp. 222
€ 20,00
isbn 978-88-97522-05-8
Il libro
Cosa resta oggi del lavoro che abbiamo conosciuto nella modernità industriale? Verosimilmente solo alcuni frammenti, che non è facile, e forse nemmeno utile, cercare di ricomporre. La moderna relazione tra lavoro e cittadinanza è oggi, infatti, rimessa completamente in discussione. Se da un lato essa è l’esito di una insistita strategia di deregolamentazione e umiliazione del lavoro, il cui effetto principale è una condizione di precarietà generalizzata, dall’altro occorre trovare, all’interno e contro di essa, una via di fuga capace di favorire l’emergere di quella montante eccedenza di soggettività che la fine del lavoro fordista lascia intravvedere. Per comprendere il fenomeno nella sua complessità occorre allora evitare di ridurre l’analisi della condizione del lavoro all’interno di un tanto necessario quanto insufficiente paradigma dell’afflizione, e studiare invece il rapporto che nel capitalismo postfordista e biopolitico viene a instaurarsi tra lavoro, produzione sociale e appropriazione della ricchezza. Il volume propone in particolare una riflessione transdisciplinare sul modo in cui le diverse forme del lavoro si inscrivono nel nuovo processo di creazione del valore fondato, ormai in modo sempre più diretto, sull’intero tempo di vita e sulla cooperazione sociale. L’intento è quello di indagarne la frantumazione e la precarizzazione come uno degli elementi cardine, accanto ai processi di finanziarizzazione, del nuovo regime di accumulazione capitalistico. Solo mettendo in relazione quest’ultimo con le resistenze che lo attraversano è possibile cogliere gli elementi che carattarezzano le nostre società e le forze che ne possono mutare il corso.
Gli autori
A. Amendola, E. Armano, D. Banfi, S. Bologna, A. Cazzola, F. Chicchi, S. Cominu, A. Curcio, A. Fumagalli, M. Gray, E. Leonardi, S. Lucarelli, S. Mezzadra, C. Morini, A. Ross.
I curatori
Federico Chicchi insegna Sociologia del lavoro e Organizzazione e impresa presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna. Tra le sue pubblicazioni: Capitalismo, lavoro e forme di soggettività (Sapere2000, 2005) e, con Gigi Roggero, Lavoro e produzione del valore nell’economia della conoscenza (Franco Angeli, 2009).
Emanuele Leonardi è PhD candidate presso il Centre for the Study of Theory and Criticism, University of Western Ontario. Tra le sue pubblicazioni: “Ricchezze e limiti dell’ambientalismo”, in Ottavio Marzocca (a cura di), Governare l’ambiente? (Mimesis, 2009).
Alla Coworking Conference 2011
Tra un paio di giorni sarò a Berlino per seguire la Coworking Conference 2011 (hastag su Twitter #coworkingeu). Anyone else?
La rivoluzione industriale del nostro tempo
Tra un’ora sarò al Museo del 900 in Piazza Duomo a Milano a parlare con Paolo Perulli, Gad Lerner e Cristina Tajani (assessore al lavoro del Comune di Milano) del libro che ho scritto con Sergio Bologna. Non ho idea di quali spazi e tempi ci saranno. Mi piace ascoltare più che parlare, ma se avessi modo, questo è più o meno quello che mi piacerebbe dire.
La rivoluzione industriale del nostro tempo
Scrive Sara Horowitz della Freelancers Union su The Atlantic che “The Freelance Surge is the Industrial Revolution of our Time”, l’emergere del fenomeno freelance è la rivoluzione industriale del nostro tempo. Io ne sono pienamente convinto. Ne scrivo su un blog personale (questo) da sei anni, tre prima di quando Il Corriere della Sera si è accorto che esistono le partite IVA, ma ben dieci dopo un lavoro di Sergio Bologna e Andrea Fumagalli che portarono agli onori della cronaca della ricerca sociale il “lavoro professionale autonomo di seconda generazione”.
Questo significa che non è una novità. Oggi tutti sanno chi è un freelance, forse non hanno ben chiaro come faccia a guadagnarsi da vivere. C’è molta luce sul fatto che NON siano lavoratori dipendenti, molta ombra sulla loro posizione sociale. Nell’identificarsi non hanno problemi, ce l’hanno nelle rivendicazioni. La coscienza di che cosa significhi essere freelance si acquisisce in fretta: vi leggo, per esempio, la definizione di una giovanissima 26enne, trovata su un blog:
“Ma chi è oggi un freelance? È un lavoratore che non ha padroni e che di volta in volta lavora per chi gli commissiona un progetto. Un freelance è un esperto che sa fare molto bene il proprio lavoro e che ha alcuni skill specifici in cui è specializzato e continuamente aggiornato. Cosa, invece, non è un freelance? Non è un tizio che si può permettere di lavorare meno, da casa, non è un mezzo lavoratore. Non è un fannullone che pur di lavorare dal divano ha rinunciato a un lavoro cosiddetto normale”.
C’è tutta l’antropologia del freelance e qualche pregiudizio che lo circonda. Ha dimenticato lo stereotipo dell’evasore, quello che piace di più… Più complesso è, invece, capire le relazioni che il lavoro autonomo ha con la cultura e lo stato sociale. Che diritti hanno? Sono professionisti o ciarlatani? È un’élite o sono intellettuali proletaroidi?
Diritto al futuro (non per tutti): istruzioni per l’uso
Con la circolare dell’INPS 115/2011 del 5 settembre è stato chiarito come i giovani genitori di figli minori possono iscriversi a alla Banca dati del Ministero che consente di accedere al progetto “Diritto al futuro“, promosso dal ministro Meloni, finalizzato all’erogazione di incentivi del valore di 5.000 euro in favore delle imprese private e delle società cooperative che provvedano ad assumere – con un contratto a tempo indeterminato, anche parziale – le persone iscritte alla banca dati. In pratica una specie di “bonus papà” o “bonus mamma“.
Prima di riportare modo e requisiti è interessante cogliere come ancora una volta i freelance o titolari di partita IVA siano considerati “pària delle politiche sociali”, invisibili, rimossi, cancellati. Titolari ed ex titolari di contratti di lavoro di ogni genere potranno beneficiare di questa opzione, i freelance no. Dovrebbero chiudere la propria partita IVA e iscriversi ai Centri per l’Impiego come disoccupati. I titolari di contratti di altro tipo possono invece tranquillamente continuare a lavorare. Che cosa significa? Semplice: che il cittadino-lavoratore non esiste nel nostro Paese, esistono soltanto alcune fattispecie, non tutte e non tutte hanno diritto al futuro, evidentemente.
PROCEDURE PER L’ISCRIZIONE
Requisiti per l’iscrizione alla banca dati
I soggetti aventi diritto potranno iscriversi alla banca dati a decorrere dalla data di pubblicazione di apposito avviso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana.
Possono iscriversi alla banca dati coloro che possiedano, alla data di presentazione della domanda, congiuntamente i seguenti requisiti:
- età non superiore a 35 anni (da intendersi fino al giorno precedente il compimento del trentaseiesimo anno di età);
- essere genitori di figli minori – legittimi, naturali o adottivi – ovvero affidatari di minori;
- essere titolari di uno dei seguenti rapporti di lavoro:
- lavoro subordinato a tempo determinato
- lavoro in somministrazione
- lavoro intermittente
- lavoro ripartito
- contratto di inserimento
- collaborazione a progetto o occasionale
- lavoro accessorio
- collaborazione coordinata e continuativa.
In alternativa al requisito di cui al punto c), la domanda d’iscrizione può essere presentata anche da una persona cessata da uno dei rapporti indicati; in tal caso è richiesto l’ulteriore requisito della registrazione dello stato di disoccupazione presso un Centro per l’Impiego.
Autonomia (troppa?) e nuovo mutualismo
Come scrive Giuliano Milani su L’Internazionale di oggi (vedi recensione di “Vita da freelance” riportata sotto) ogni volta che emerge un nuovo gruppo sociale o tipologia di lavoratori sorge spontanea anche la domanda di nuovi diritti. Il mondo dei freelance è proprio lì che attende e è arrivato il tempo di discuterne. Anche Sara Horowitz della Freelancers Union sostiene oggi su The Atlantic che sì, ci siamo entrati in questo periodo storico, e che The Freelance Surge Is the Industrial Revolution of Our Time.
Questa transizione del mondo del lavoro non è niente meno che una rivoluzione, sostiene. “We haven’t seen a shift in the workforce this significant in almost 100 years when we transitioned from an agricultural to an industrial economy. Now, employees are leaving the traditional workplace and opting to piece together a professional life on their own. As of 2005, one-third of our workforce participated in this “freelance economy“.
Che si chiami Gig economy, Freelance Nation, e-conomy, The Rise of the Creative Class, popolo delle Partite Iva o Quinto Stato, poco importa. E’ un fenomeno di massa e con questo dovremo sempre di più fare i conti. Negli Stati Uniti hanno le idee chiare: “The solution will rest with our ability to form networks for exchange and to create political power“. Dice la Horowitz: “I call this new mutualism” e promette di raccontare qualcosa di più nei prossimi articoli su The Atlantic, da tenere sotto osservazione, dunque.
Viaggio nei Balcani e ritorno
Forse non è chiaro a tutti che cosa sia stato infilato in manovra economica di agosto sotto la voce “Misure a sostegno dell’occupazione”. A fianco dell’interessante ritocco degli stage e dell’estensione dell’uso dei fondi interprofessionali per la formazione a lavoratori con contratto a progetto o apprendisti (a quando l’estensione tout court ai “lavoratori”?), che considero passi avanti, c’è questa cosa che non saprei bene come definire se non un “porcellum sfracellum”, una bomba a frammentazione nel diritto del lavoro. Bersani l’ha definita “balcanizzazione”, la Camusso ha minacciato per questo articolo vertenze azienda per azienda, visto che ha tutta l’aria di portare un po’ di stile marchionne in ogni angolo del Paese. E’ l’articolo 8 della Manovra, che vi riporto per intero:
Sostegno alla contrattazione collettiva di prossimita’
1. I contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente piu’ rappresentative sul piano nazionale ovvero dalle rappresentanze sindacali operanti in azienda possono realizzare specifiche intese finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualita’ dei contratti di lavoro, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitivita’ e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attivita’.
2. Le specifiche intese di cui al comma 1 possono riguardare la regolazione delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione incluse quelle relative: a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie; b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarieta’ negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; d) alla disciplina dell’orario di lavoro; e) alle modalita’ di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio e il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio.
3. Le disposizioni contenute in contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 tra le parti sociali, sono efficaci nei confronti di tutto il personale delle unita’ produttive cui il contratto stesso si riferisce a condizione che sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori.
Le tre novità più rilevanti sono a mio avviso: 1) la deroga sistematica al modello di contratto nazionale, con l’approvazione dei risultati delle relazioni industriali tramite referendum interni e locali; 2) l’introduzione di possibili variazioni sui sistemi di licenziamento e per quanto mi riguarda da più vicino; 3) la possibilità che siano le “associazioni comparativamente più rappresentative” a determinare in quale modo dovranno essere regolati i rapporti tra imprese e Partite IVA. Ora questa ultima questione è davvero fuori da ogni logica e sottointende la pericolissima ipotesi che il lavoro autonomo possa essere sussunto sotto la contrattazione collettiva come se si trattasse di una modalità diversa, da regolare appunto, ma pur sempre di lavoro subordinato (e per di più, per molti, a basso costo e basso rischio, perché facilmente “licenziabile”), quando, invece, le uniche norme che forse andrebbero introdotte riguardano la definizione di lavoro autonomo, i tempi di pagamento e poco altro. E’ al contrario sul fronte del Welfare universalistico, non nella contrattazione di prossimità, che servono le misure più urgenti per i freelance.
Cinque nodi del lavoro freelance in Italia
Un mese fa ho partecipato all’incontro “Giovani, nuovi imprenditori di se stessi nell’economia della conoscenza” promosso da Unipol. Moderava Sergio Rizzo del Corriere della Sera e ho avuto il piacere di confrontarmi, tra gli altri, con Giuseppe Roma del Censis e Aldo Bonomi di Aaster. In origine sarebbe dovuta venire anche Susanna Camusso, peccato per la defezione. Ho ripescato il testo dell’intervento, che ripubblico per chi fosse interessato alla questione del lavoro professionale autonomo. Lo scopo dell’intervento era di presentare un’estrema sintesi dell’ultimo testo scritto insieme a Sergio Bologna aprendo la strada ai problemi del Welfare e della rappresentanza in Italia.
I FREELANCE E L’ALTRA META’ DELL’OPERA
di Dario Banfi
Per un futuro Sostenibile | Giovani, imprenditori di se stessi nell’economia della conoscenza. Sede Unipol – Milano, 16 Giugno 2011
Il lavoro svolto insieme a Sergio Bologna è forse più ricco di quesiti che di risposte: non c’è la soluzione al problema della sostenibilità della vita dei freelance. Abbiamo, invece, cercato di sollevare alcune questioni di fondo che hanno a che fare con il Welfare e il “benessere” del lavoratore professionale autonomo. Vorrei presentarne sinteticamente cinquee:
Né imprese né gentiluomini o finti dipendenti…
Il primo nodo è quello della rappresentazione di questo tipo di lavoratori. Sebbene non siano figure nuove, emergenti o sconosciute, si tende a considerarle sempre degli outsider: estremamente talentuose, geniali, superconsulenti spesso anche un po’ ciarlatani, o al contrario figure residuali, vittime dell’ennesima ristrutturazione aziendale. Ecco, mai come in questo caso si può dire che la verità stia nel mezzo.
Un giurista come Adalberto Perulli ci ha detto che l’identikit, il ritratto antropologico che abbiamo tracciato è quello di “un prototipo umano” che la sua categoria, i giuristi, ancora non conosce abbastanza. Finora si sono regolati sulle professioni liberali e sulle figure di piccoli artigiani e commercianti. Il freelance, però, non è né l’uno né l’altro. Ciò significa che tra il dato normativo e la realtà oggi esiste uno scarto piuttosto significativo, un deficit di regolazione che non nasce a caso, ma è il prodotto di una sedimentazione di norme che interessa tra l’altro tutti i grandi capitoli del diritto, a partire dalla Costituzione.
Il Diritto Civile, per esempio, non mette a fuoco il lavoro autonomo, ma inquadra principalmente i contratti, primo tra questi il contratto d’opera. Non trova neppure facile contiguità con il Diritto del Lavoro. Il mondo dei freelance si sposta piuttosto in direzione del Diritto Commerciale. I freelance non sono però “imprenditori di se stessi”, mi spiace contraddire il titolo di questo incontro, almeno per tre ragioni che sono poi le stesse che presentiamo all’Agenzia delle Entrate quando entriamo in contenzioso per farci ridare soldi sottratti ingiustamente con l’IRAP.
La Corte di Cassazione è stata chiara. Primo: non abbiamo strumenti superiori a quelli di cui abbiamo bisogno. C’è differenza tra noi e chi ha un’officina: il nostro capannone è questo qui [il cervello], gli strumenti sono la conoscenza specialistica e spesso bastano un computer e un semplice cellulare. Secondo: non ci avvaliamo di risorse superiori a quelle necessarie per svolgere un lavoro in autonomia. Non abbiamo cioè dipendenti. Terzo: l’accumulazione non è un tratto che ci distingue sotto il profilo economico e produttivo. Non manovriamo capitali. Questo perché il sistema di ammortamento del valore generato sposta principalmente la tassazione sul lavoro e non potremmo fare impresa se non con un salto quantico verso un altro status, un’altra condizione.
Questa interpretazione “mercatista” e sbagliata, tuttavia, continua a marcarci stretta e mantiene vivo un paradosso per il freelance-impresa, diciamo così: se incappiamo in distorsioni del mercato il diritto italiano sostiene che la correzione di questa anomalia vada ricondotta al principio di protezione della concorrenza, non a quello del lavoro. Noi, però, siamo singoli lavoratori. Ce la dovremmo giocare alla pari con le multinazionali: è un falso storico, abnorme.
Il secondo falso storico di cui sono principalmente responsabili i sindacati è l’idea che siamo immersi in a una sorta di “pansubordinazione” del lavoro.