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(un amico)
Tutti, in vita, affrontiamo la morte, senza mai farne esperienza diretta. Perdiamo persone vicine, leggiamo di persone lontane. A me è toccato in sorte, in questi ultimi anni, di accompagnare mio padre e mia madre fino alla fine. Percorsi faticosi, ma vissuti con dignità, coraggio e amore.
Non scriverò di questo, ma di come si possa comunque parlare della morte senza usare la prima persona, ricadendo, cioè, nella semplice riduzione di un pensiero empirico. La morte è il finale di tutti i giochi, il momento ultimo di ogni vita ed è questo il punto.
Platone, Cartesio, Montaigne, Locke, Schopenhauer, Derrida, Jankélévitch e molti altri hanno scritto testi mirabili in materia.
Di recente la mia attenzione è caduta su un filosofo contemporaneo e vivente, Shelly Kagan, professore alla Yale University, che ha rilasciato sul sito della celebre Università americana, in open access, il suo Corso, intitolato semplicemente Death. Dalle 26 lezioni (lectures) fruibili anche in formato video, disponibili, in parte, anche su YouTube, è nato il saggio, disponibile in italiano, Sul Morire. Lezioni di filosofia sulla vita e la sua fine (Mondadori, 2019).
Di seguito trovate la sintesi del percorso approntato intorno al tema della morte da Shelly Kagan durante le sue lezioni e nel suo libro. Una lunga sintesi (forse incompleta, forse utile per approfondire il tema dell’eutanasia legale) che voglio dedicare, in sordina, a un giovane e talentuoso liutaio di Milano, Stefano Bertoli, che se n’è andato troppo presto, lasciando in dono a chi l’ha conosciuto lo splendido ricordo di un ragazzo libero, sorridente, che ha creduto nella vita.
Sul Morire. Lezioni di filosofia sulla vita e la sua fine
Sommario:
I. Pensare la morte
Affrontare il tema della morte significa pensare il fenomeno della morte (nessuna metafisica è possibile, diceva Jankélévitch) e chiedersi chi siamo noi, che cosa accade dopo, se la morte è un male o sopravviviamo in qualche modo.
Non è un pensiero semplice ed è circondato da numerose credenze. Le più diffuse? Per esempio, che abbiamo un’anima o che la morte sia un mistero; che l’immortalità sia meravigliosa e il suicidio non abbia senso. Ma sono vere?
II. Dualismo versus fisicismo
Per parlare della morte bisogna partire da noi, sostiene Kagan. Se esiste davvero una vita dopo la morte, deve necessariamente avere una relazione con il modo in cui siamo fatti e con l’esistenza (o meno) di una parte di noi che sopravvive. Se, invece, nulla di noi continuasse a vivere il problema diventerebbe irrilevante. In caso contrario bisogna capire la natura di questa persistenza, della permanenza, cioè, della nostra identità personale nel tempo. Cosa ci serve per sopravvivere? Il corpo no, visto che perisce irrimediabilmente. Allora che cosa?
Esistono principalmente due modi di rispondere, che definiscono come sono fatte le persone: 1) ognuno di noi è il frutto di una combinazione fra un corpo e qualcos’altro: una mente, concepita come separata, un’anima cioè, distinta dal corpo; 2) le persone sono semplicemente oggetti materiali. La prima è la posizione cosiddetta “dualista“, la seconda è denominata “fisicista“.
Entrambe accettano l’esistenza del corpo, ma non quella dell’anima. Soltanto per i dualisti esiste una mente, ovvero una sostanza immateriale, un’anima, che interagisce col corpo e che sopravvive alla sua morte, momento di rottura tra le due parti. La persona è la sua anima e questa sopravvive (non ha altra possibilità che sopravvivere!) alla morte. Per i fisicisti, invece, la persona è soltanto un corpo. La sua mente è l’insieme delle capacità che può esprimere con il corpo: pensare, comunicare, decidere, creare, innamorarsi ecc. La mente, però, non si colloca oltre il corpo e quando questo smette di funzionare, anche la mente viene distrutta. Per i dualisti la mente è un’anima, un oggetto immateriale, per i fisicisti una capacità del corpo.
III. Argomenti a favore dell’esistenza dell’anima
Ci sono buone ragioni per credere all’esistenza dell’anima? Purtroppo non si può osservare o percepire con i sensi, dice Kagan, e occorre perciò formulare “una deduzione della spiegazione migliore“. Si potrebbe dire che l’anima è ciò che tiene in vita il corpo, ma non basterebbe: la differenza tra uno stereo funzionante e uno rotto non è l’anima, replicherebbe un fisicista.
Si potrebbe allora partire dall’esperienza delle emozioni: nessun oggetto fisico ha, infatti, emozioni. Nessuna macchina conosce l’aspetto qualitativo dell’esperienza o ha una coscienza. E in effetti, da questo punto di vista, anche per un fisicista la coscienza è una spiegazione possibile, ma rimane comunque del tutto misteriosa. Nessuno è stato in grado di dare una buona spiegazione del suo funzionamento. In futuro, forse, riusciremo a capirne di più, ma dire semplicemente che corrisponda all’anima non offre una spiegazione migliore e non dimostra alcunché sull’anima.
Lo stesso dubbio permane quando si cerca una prova dell’anima associandola a un altro aspetto considerato, da sempre, soltanto “umano”, ovvero la creatività. Siamo creativi e questo dimostra che abbiamo un’anima. Ma non è vero, ricorda Kagan: anche alcune macchine possono essere considerate creative. Oltre ai circuiti elettronici hanno dunque un’anima?
Più complessa, invece, è l’argomentazione che parte dal libero arbitrio: anche in questo caso, però, si può dire che determinismo delle cose e libero arbitrio degli uomini non sono del tutto contrapposte. Non tutto in natura è predeterminato, basti pensare alla fisica quantistica, oppure al fatto che non tutte le azioni siano libere. Associare l’anima al libero arbitrio non è dunque così probante. Questo tipo di argomentazioni, in sintesi, sembra avere un punto debole: Kagan passa perciò ad analizzare tesi più accreditate, quelle classiche della filosofia.
IV. La tesi di Cartesio
L’argomentazione di Cartesio in favore dell’esistenza dell’anima parte da una storia: immaginiamo di trovarci di fronte a uno specchio, ma di non avere un corpo. Logicamente è possibile ammettere l’esistenza della mente senza corpo. Questo dimostra che esiste di fatto già una differenza tra mente e corpo. Poter immaginare la non-esistenza del corpo presuppone per Cartesio la sua distinzione logica dalla mente.
Questa dimostrazione funziona? Non del tutto, dice Kagan. Quando immaginiamo tale situazione stiamo pensando a un mondo in cui qualcuno senza corpo pensa erroneamente di essere proprio me. Nello scenario immaginato è la sua mente che esiste senza corpo, non la mia. L’errore di Cartesio (dimostrato con il classico esempio delle stelle della sera e del mattino, immaginate come diverse, ma in realtà identiche), sta nell’affermare che se è logicamente possibile che due cose possano esistere una senza l’altra, anche nella realtà siano distinte. Un errore logico che viene smascherato in base a principi di realtà.
V. Platone e l’immortalità dell’anima
Il filosofo americano passa allora a Platone. Difficile riassumere le sue tesi in poche pagine. Kagan mette a fuoco perciò poche e precise argomentazioni a favore dell’esistenza dell’anima, che Platone deduce dalla possibilità di afferrare e comprendere le idee (Eidos), ovvero “forme” che esistono realmente in maniera distinta dalle cose e dal corpo e non mutano (come gli oggetti materiali). Poiché il simile coglie il simile, la mente è in grado di cogliere le idee e di conseguenza deve essere anch’essa immateriale. E visto che le forme sono eterne, lo è anche l’anima. La semplicità, indivisibilità, eternità delle forme (invisibili, nel senso di non individuabili in alcun modo, e dunque indistruttibili) dimostrano le medesime caratteristiche dell’anima.
In questi celebri sillogismi, però, secondo Kagan, qualcosa scricchiola: è proprio vero che le cose invisibili non possono essere distrutte o che non siano individuabili? Per Kagan la mente non è immutabile e può essere individuata comunque negli effetti che produce sul corpo. Semplicità e immortalità, inoltre, non si equivalgono. Sono contro argomentazioni un po’ sbrigative, che tralasciano colpevolmente ogni analisi filologica, ma che lasciano comunque intravvedere una debolezza di fondo del costrutto platonico.
VI. Identità personale
Riflettiamo ancora sull’anima: come si fa a dimostrare qualcosa che non esiste? E che cosa sono io? Che cosa significa continuare a esistere? Un modo per affrontare tali questioni è di pensare il susseguirsi degli stati di qualcosa (un’automobile, per esempio, come in figura) o di una persona, come un “bruco-temporale”, dice Kagan, con fasi spaziali o temporali separabili. Ma quale “colla metafisica” le tiene insieme?
Come è facile intuire questo bruco termina con la morte. Ma è possibile dire che resta qualcuno, che è la mia stessa identica persona, con la fine del mio corpo? Per i dualisti la colla metafisica corrisponde all’anima, garante dell’identità personale. Per i fisicisti la chiave dell’identità è il corpo: per avere la medesima persona bisogna avere lo stesso corpo e la parte più importate è il cervello, sede della personalità.
VII. Scegliere tra diverse teorie
E se fosse la personalità a definire l’identità personale? Possibile, ma si consideri l’ipotesi di un pazzo che crede di essere Napoleone. Anche lui è Napoleone? No. Potrà anche avere la sua personalità, ma mai il suo corpo. Dunque c’è un problema ulteriore, che va al di là della questione della personalità. E una questione da risolvere: la duplicazione dei soggetti con la medesima personalità. Quanti Napoleone possono esistere? E se ci fossero molti folli con questa credenza? Poiché la mia identità è univoca, non possono esistere duplicati di me stesso. Se veramente fosse la personalità il fulcro dell’identità, andrebbe di conseguenza aggiunto un corollario sull’impossibilità di una duplicazione, onde evitare molteplici copie della mia identità.
Seguendo questo ragionamento si tocca, però, un nodo cruciale: l’identità non dovrebbe dipendere da circostanze esterne a me, come la presenza o meno di folli che credono di essere me stesso, ma riguardare soltanto fattori interiori, unicamente miei. Cosa diversa per il corpo, che non è duplicabile. In questo caso non si porrebbe il problema dell’identità del corpo, unico e non replicabile. O meglio, non si porrebbe se il mio cervello permanesse, indiviso e unico, in un solo corpo (e nell’ipotesi di trapianti, per capire a chi riferirsi, in termini di identità personale, i fisicisti dicono: “Segui il cervello!”).
L’anima, invece, come scriveva Platone nel Fedone, è veramente indivisibile? Nessun dualista prevede clausole di non duplicazione o ha mai ipotizzato la fissione dell’anima. A questo punto è lecito porsi allora questa domanda: “Che cosa serve per sopravvivere?”. Che cosa conta? Quasi tutti rispondono: preservare la propria personalità, come è ora! Vogliamo più della semplice sopravvivenza corporea. L’identità basata sul corpo è più convincente, ma in definitiva, come persone, desideriamo sopravvivere ben oltre il nostro corpo.
VIII. La natura della morte
Vediamo ora in che cosa consiste morire. Per i fisicisti una persona è un corpo con delle funzioni. In questo quadro, come si può definire il momento della morte? Quali funzioni considerare? Le ipotesi sono due: si muore quando cessano in maniera permanente le funzioni cognitive che consentono di esprimere la personalità (“Funzioni P”), oppure quando cessano le funzioni corporee (cuore e cervello) in maniera permanente (“Funzioni C”).
I sostenitori delle teorie personalistiche potrebbero arrivare al paradosso di affermare che si muore anche quando le funzioni della personalità cessano in un corpo vivo. Per i fisicisti, invece, si muore quando il corpo muore. Da queste due ipotesi derivano due modi completamente diversi di pensare al fine vita e a come assistere, per esempio, i malati che non possono più recuperare le funzioni della personalità.
IX. Due sorprendenti affermazioni sulla morte
Tutti siamo destinati a morire, ma spesso questa verità viene negata. Si pensa sia impossibile cessare di esistere come esseri pensanti e consapevoli, in primo luogo perché non siamo in grado di immaginarci da morti. Non c’è nulla da descrivere nello status di una persona morta. Possiamo, al massimo, immaginare di essere morti, ma non da una prospettiva interna, bensì esterna.
Ogni volta che immaginiamo di sopravvivere, sopravviviamo come spettatori, diceva Freud. Da questo fatto non si può comunque dedurre la nostra immortalità (come sosteneva Cartesio), semplicemente perché immaginare qualcosa senza di me non significa presupporre che lo spettatore esista davvero. È sorprendente, a ogni modo, quanto sia diffuso il fatto di non credere fino in fondo alla propria morte. Tendiamo, cioè, a evitare traumi “alla Ivan Il’ìc”.
La seconda affermazione che sorprende è questa: tutti pensiamo che si muore soli. Ma questo non è vero: si può morire in presenza di altre persone o morire insieme ad altri (per esempio, in guerra). Al massimo, il morire “si fa” da soli. In altre parole, anche se muoio con altri, nessuno potrà mai prendere il mio posto. Morire soli significa, perciò, che nessuno può morire la mia morte al posto mio. Ma è una tautologia. Al più si può dire che psicologicamente ci sentiamo soli, ma non è sempre del tutto vero, come dimostrano, per esempio, le ultime ore di vita di Socrate.
X. Il male della morte
Da questo punto in poi la riflessione si fa più intensa, nel testo di Kagan, e si arriva al cuore del tema, ovvero alla natura della morte. Tutti crediamo che sia un male. Ma perché? Se non esisto, non dovrebbe essere un male, risponderebbe un fisicista o un filosofo stoico. Ma non è così semplice. Resta un male, per esempio, per gli altri che amano la persona che muore e continuano a vivere.
Interviene allora Kagan. Ci sono tre modi per cui la morte è un male: 1) intrinsecamente, per il dolore fisico che genera; 2) strumentalmente, in virtù di ciò che causa; 3) comparativamente, perché nega un bene maggiore, ovvero perché priva chi muore delle cose buone della vita (tesi della deprivazione).
Questi modi vanno collocati anche nel tempo, altrimenti non hanno senso. Seguiamo per un momento Epicuro, secondo il quale la morte non è un male se siamo vivi, ma neppure quando siamo morti, perché non può creare danno a chi non c’è più. Allora quando è un male? Secondo Kagan Epicuro non l’ha detta giusta, la seconda affermazione ha un difetto: per alcune forme di male, non è necessario che io esista perché tali cose siano per me un male. Il male comparativo della deprivazione, per esempio, è un male di questo tipo, che agisce ora su di me. Il male della morte sta dunque nella privazione di ciò che avrei potuto vivere ancora, che non avrò e che patisco ora, come mancanza di futuro.
Lucrezio aggiunge uno spunto di riflessione: nessuno è però angosciato dal tempo che non ha vissuto prima della propria nascita. Come mai? Prima e dopo la vita, tuttavia, non sono sullo stesso piano: la morte implica la perdita di ciò che avevo già! Thomas Nagel risponde a Lucrezio ancora più duramente: l’ipotesi di poter esser nato prima non è proprio possibile! Con la morte vengo privato di ciò che avrei potuto avere per certo (la vita), ma non avrò. Il male principale della morte è la privazione di qualcosa che conosco bene, la vita che sto vivendo.
Stranamente, però, manteniamo un atteggiamento che tralascia del tutto queste intuizioni. Ci dispiacciamo di più per ciò che un tempo avevamo rispetto a ciò che non potremo avere, ovvero alle privazioni che ci toglierà la morte. E questo è un mistero, ammette Shelly Kagan. Viceversa temiamo più le responsabilità future, come ricorda Derek Parfit, rispetto alle conseguenze che derivano da quanto abbiamo commesso in passato. La morte è un male in questo senso: non potremo avere le cose belle e buone che la vita ci offrirebbe se non fossimo morti. Eppure, quotidianamente, pensiamo più alle perdite del passato e dimentichiamo in fretta quanto abbiamo seminato, più che a rammaricarci di ciò che non avremo mai.
XI. L’immortalità
Se la morte è un male, dunque essere immortali è un bene? Accettare la tesi della deprivazione non significa, per Kagan, che la morte sia comunque sempre un male. Basti pensare a chi soffre di mali incurabili e debilitanti. La morte ci libererebbe anche delle pene della vecchiaia, rincara, forse eccessivamente, Montaigne. Ma avrebbe senso vivere per sempre, come in quel paese scoperto nei viaggi di Gulliver? Il paradiso eterno è sempre stato acclamato e desiderato, ma a ben guardare non è dato sapere con precisione come sia veramente: le religioni non offrono grandi dettagli.
A ogni modo per Shelly Kagan, prendendo a prestito le riflessioni del filosofo Bernard Williams, l’immortalità non è affatto un bene: “Non riesco a immaginare alcuna vita che io abbia voglia di fare per sempre!“. Che noia immortale essere sempre me stesso! Meglio sarebbe poter vivere a lungo quanto si vuole, come nel sogno di Julian Barnes. Può essere un male morire nel momento in cui effettivamente moriamo, perché è troppo presto, ma, in assoluto, la morte non è un male. Ci libera dal fardello dell’immortalità.
XII. Il valore della vita
Passo passo ci avviciniamo al tema dell’eutanasia. Se la morte dovesse liberarci da un futuro orribile, chi può dire che non sia un bene? Questa domanda sottintende una riflessione più ampia su che cosa renda una vita buona e bella. Per rispondere Kagan distingue il valore intrinseco che hanno alcune cose in sé da quello strumentale delle cose in quanto mezzi per ottenere altri fini. Nel caso della vita conviene concentrarsi su ciò che ha valore in sé. Vediamo le credenze più diffuse.
C’è chi ritiene che la sola cosa che abbia valore in sé sia il piacere (e disvalore in sé, il dolore). Sono le persone che hanno una visione edonista della vita. Per gli edonisti il valore della vita è dato dalla somma dei piaceri e dalla sottrazione dei dolori. È una posizione sostenibile? Per rispondere Kagan chiama in causa Robert Nozik e la sua celebre “macchina delle esperienze”: se ne esistesse una, che si attacca al cervello, e riproducesse soltanto piaceri, come se fossero reali, ciò basterebbe a dare valore alla vita? No, mancherebbe qualcosa: la possibilità di avere coscienza di noi stessi o provare reali relazioni affettive.
Altra posizione è quella degli ottimisti: la vita è sempre degna di essere vissuta ed è sempre meglio della non-esistenza. Per i moderati, invece, la risposta è: dipende. La vita è un contenitore neutrale e conta ciò che vi “aggiungiamo”. Chi ha una cultura religiosa assegna di solito un valore intrinseco a questo contenitore. Chi ha una visione più laica, no.
Da tutte queste posizioni derivano almeno tre approcci al tema di come valorizzare la vita: 1) essere vivi è un valore di per sé; 2) la vita ha un valore neutrale, pari a zero; 3) la vita ha un valore altissimo, più alto di ogni male.
XIII. Altri aspetti della morte
Il male fondamentale della morte è la deprivazione, come si è detto, ma non è l’unico male. Può affliggerci anche la consapevolezza della sua inevitabilità. Non poterla evitare ci può tormentare. Questa angoscia è, però, sbagliata. Secondo Spinoza se qualcosa avviene necessariamente dobbiamo considerarla meno spaventosa. Per Dostoevskij questa condizione, invece, peggiora le cose. Per Kagan, invece, non esiste un grado unico di “uguaglianza” e tensione emotiva di fronte alla morte. La morte è variabile: chi trae minor beneficio dalla vita, perché muore in giovane età, prova infatti maggior dolore. Non siamo tutti uguali di fronte alla morte.
Un altro aspetto è l’imprevedibilità. Sempre, per tutti, uno svantaggio, ma in alcuni casi ha un’incidenza maggiore. Il valore di una vita dipende, infatti, dall’arco narrativo complessivo in cui si sviluppa, cresce e prende forma: tutti ci preoccupiamo della traiettoria che diamo alla nostra esistenza. Passare da una condizione negativa a una positiva è sempre meglio di affrontare una vita in declino: essere colti di sorpresa nei momenti che volgono al peggio toglie speranza e possibilità di redimersi.
Un’altra credenza, piuttosto diffusa, è l’idea che sarebbe meglio sapere quando morire. Ma veramente vogliamo conoscere quanto tempo ci resta? Ci comporteremmo davvero diversamente? Di fatto la morte resta onnipresente: si può morire in qualsiasi momento. Non può che essere così, a meno di decidere diversamente. C’è chi accentua questo rischio, volontariamente, sfidando la morte. Ma per Kagan le fragilità e la mortalità rendono la vita ancora più preziosa. Va rispettata questa debolezza, non messa alla prova. Diversa è l’opinione dei pessimisti, secondo i quali, invece, la vita resta in generale una pena, sempre e soltanto un “assaggio”. Da straordinaria diventa rapidamente insopportabile e umiliante.
XIV. Vivere al cospetto della morte
Quando si mette davanti a sé la morte nascono molti interrogativi. Dovrebbe, per esempio, influenzare il modo in cui viviamo? Certamente, sostiene Kagan. Non è naturale disinteressarsi. Ci sono momenti e luoghi più o meno adatti per pensare alla morte, ma come dobbiamo reagire in generale?
“Il significato della vita sta nel fatto che finisce“, scriveva Kafka. Per questo la reazione più comune è la paura. Ma perché proviamo realmente timore? Kagan offre una spiegazione a partire dalle “condizioni” di questa emozione, dovuta, secondo lui, a tre fattori: 1) il fatto che ciò di cui si ha paura sia considerato un male; 2) il fatto che esista un’alta probabilità che morire ci possa effettivamente capitare; 3) e il fatto che sussista un’elevata incertezza su quando accada.
La nostra paura si concentra spesso sul “processo di morire”: temiamo fasi terminali dolorose o malattie fortemente debilitanti. E poiché non sappiamo quando moriremo, temiamo di morire “prima, anziché dopo”, imprevedibilmente troppo presto.
Proviamo, molto spesso, anche rabbia quando sappiamo di dover morire. Ma ha senso? Kagan dice: è giusto arrabbiarsi, di solito, quando ci viene fatto un torto o veniamo trattati in modo moralmente ingiusto. Nel caso della morte con chi dovremmo prendercela? Arrabbiarsi con l’universo non è una reazione giustificabile razionalmente. Anzi, piuttosto banale. Kurt Vonnegut (in Ghiaccio-Nove) ricorda, al contrario, come la vita sia “una fortuna straordinaria per pochi eletti“. Rabbia o paura dovrebbero lasciare il posto alla gratitudine e alla gioia per aver vissuto fatti straordinari.
Un rischio percepito, di fronte alla morte, è anche quello di perdere tempo e opportunità. “Si va in scena una volta sola!”, dice Kagan. A volte si sbagliano gli obiettivi di una vita, altre volte i tempi. Non conta, però, soltanto la quantità di tempo a disposizione, bensì la qualità del vivere: per misurare il nostro benessere, dovremmo (un po’ matematicamente) sempre moltiplicare la qualità della vita per la sua durata. Il benessere è una specie di rettangolo, non una linea retta. La quantità, da sola, non conta nulla. Contano i traguardi di qualità: quando riteniamo di avere compiuto qualcosa di significativo, abbiamo, infatti, l’impressione di avere guadagnato tempo, talvolta di avere raggiunto l’immortalità in quanto una parte di noi continua a vivere.
Perfino dalla polvere, scrisse Schopenhauer (che non era certo un ottimista), possono nascere le stelle. Realizzare qualcosa che permane dopo la propria morte accresce il valore della vita stessa. In questo senso avere figli, realizzare opere, costruire imprese sono per molti un conforto e un traguardo. Di segno opposto, invece, sono le convinzioni dei pessimisti o di alcune religioni, per esempio, quella buddista, secondo le quali la vita è soltanto dolore e bisogna distaccarsi da sé e dai propri desideri.
Stiamo morendo, dopo la vita diventiamo vento
Sierra
XV. Il suicidio
Il tema più complesso, il suicidio, viene affrontato per ultimo da Kagan, che usa moltissima cautela nel trattare la questione. Inizia da una domanda: quando ha senso suicidarsi? La risposta è articolata e parte dalla distinzione di un piano razionale del problema da uno morale. Togliersi la vita potrebbe avere senso, se si guarda la questione da un punto di vista razionale, soltanto rispetto ai benefici o ai danni che potremmo trarne.
Il problema è di essere certi, in questo caso, di poterci fidare del nostro giudizio in situazioni drammatiche come queste. Quando la vita diventa orribile, siamo vulnerabili, non riusciamo a pensare con chiarezza. Spesso ci serve aiuto. Razionalmente occorre comparare la condizione in cui ci troviamo oggi con quella nella quale ci troveremmo in futuro e prendere una decisione. E qui sorge una prima aporia: se si tratta della morte, della non-esistenza, questo paragone non è proprio possibile. Come facciamo a dire come saremmo da morti? Non ha senso. La soluzione dipende, però, dalla nostra concezione del benessere, di ciò che rende una vita degna di essere vissuta.
Quando il futuro non ha in serbo altro che un susseguirsi sempre peggiore di dolore, sofferenza, incapacità e disperazione, fino al punto in cui effettivamente appare vero che sarebbe meglio essere morti, in questi casi, razionalmente, il suicidio (anche in forma assistita, come eutanasia) è logicamente ammissibile. È una via d’uscita. Se vi fosse, invece, una strada per migliorare la propria condizione, il suicidio sarebbe un terribile errore.
Certamente è impossibile prevedere il futuro e se la strada verso un tempo migliore esista davvero: per questa ragione in molti contestano la razionalità del suicidio. Non si sa mai, dicono. Eppure vale anche il ragionamento contrario: potrei peggiorare per sempre, senza fine. Potrebbe capitare (a partire dal punto C dello schema) di vivere una vita peggiore della non-esistenza. In linea di principio, sarebbe dunque razionale togliersi la vita.
E, invece, dal punto di vista morale? È noto come per molte religioni il suicidio sia un atto contrario al volere di Dio. Ma come sappiamo quale sia la volontà di Dio (si chiedeva, per esempio, David Hume)? Lo si evince dalla Bibbia, rispondono i cristiani. La vita è un dono di Dio, per il quale bisogna essere grati. Kagan risponde: prendiamo per buona questa giustificazione, ma quali obblighi abbiamo di gratitudine? Un debito è tale solo se ciò che ci viene dato sia effettivamente un dono. Ma quando il dono è rivoltante, inaccettabile o distruttivo, siamo obbligati a essere grati ugualmente? La tesi della gratitudine non convince. Piuttosto conviene approfondire la questione morale dal punto di vista delle conseguenze che possono derivare al prossimo dalle azioni che commettiamo.
Chi si uccide genera enorme sconforto negli amici e nei familiari. Chi ha una visione utilitarista della vita non guarda, però, soltanto ai benefici personali, ma, prima di commettere un atto estremo, prenderebbe in considerazione tutti i soggetti interessati. Tirate le somme, lo considererebbe comunque moralmente giustificato nei casi in cui sarebbe meglio, per se stesso, essere morto e, contemporaneamente, le conseguenze per le altre persone non sarebbero tali da superare il vantaggio che come suicida ne trarrebbe.
Nessuno ci obbliga ad accettare, ovviamente, questa teoria. Al di là dell’utile perseguito, molti credono che esista anche un approccio deontologico. Non contano soltanto le conseguenze (utilitaristiche), ma i modi o i mezzi. Sul piano deontologico la maggior parte di noi ritiene che non sia mai legittimo fare del male a un innocente. Ogni persona ha diritto alla vita e a non essere uccisa. Un principio sacrosanto, al quale si associa quello speculare di non uccidere. Tale principio deontologico per molti non ha deroghe (si pensi a chi segue dettami religiosi), neppure se dovesse procurare un beneficio a chi muore. Per queste persone suicidarsi è deontologicamente sbagliato, perché si sta uccidendo qualcuno, ovvero se stessi.
Le conclusioni di Kagan, però, sono di segno opposto. Per il filosofo americano se il suicidio è razionalmente accettabile, questo significa che non mi sto facendo del male. Il divieto a fare del male ad altri (e a me stesso) dunque decade. Non far del male agli altri va visto complessivamente, non nel preciso frangente del procurare la morte. Se la condizione della non-esistenza è migliore di quella in vita, non si sta facendo del male. Il suicidio, solo in questo caso, non è dunque immorale. Bisogna certamente agire liberamente, in maniera consensuale. “Mi devo dare il permesso di farlo, agendo con il consenso della mia ‘vittima’, ovvero me stesso“, scrive Kagan.
Questa tesi confuta per altro alcune credenze religiose. Si pensi a chi sacrifica se stesso per salvare altre persone. Se il suicidio in assoluto fosse deontologicamente sbagliato, questo sacrificio sarebbe senza senso, eppure è diffusa la convinzione opposta, che si tratti di un gesto di grande umanità e spessore morale. Il consenso a porre fine alla propria vita deve essere perciò libero, fatto da una persona sana di mente, consapevole, informata sulle conseguenze.
Il solo fatto che molte persone vogliano suicidarsi non basta a dimostrare che il suicidio sia moralmente ammissibile, servono condizioni più stringenti e un chiaro percorso, debilitante e irreversibile, di distruzione dell’umanità di una persona e del valore della sua vita. “Il suicidio non è sempre legittimo, ma in certi casi lo è”, conclude Shelly Kagan. E come non esser d’accordo?