Un mese fa ho partecipato all’incontro “Giovani, nuovi imprenditori di se stessi nell’economia della conoscenza” promosso da Unipol. Moderava Sergio Rizzo del Corriere della Sera e ho avuto il piacere di confrontarmi, tra gli altri, con Giuseppe Roma del Censis e Aldo Bonomi di Aaster. In origine sarebbe dovuta venire anche Susanna Camusso, peccato per la defezione. Ho ripescato il testo dell’intervento, che ripubblico per chi fosse interessato alla questione del lavoro professionale autonomo. Lo scopo dell’intervento era di presentare un’estrema sintesi dell’ultimo testo scritto insieme a Sergio Bologna aprendo la strada ai problemi del Welfare e della rappresentanza in Italia.
I FREELANCE E L’ALTRA META’ DELL’OPERA
di Dario Banfi
Per un futuro Sostenibile | Giovani, imprenditori di se stessi nell’economia della conoscenza. Sede Unipol – Milano, 16 Giugno 2011
Il lavoro svolto insieme a Sergio Bologna è forse più ricco di quesiti che di risposte: non c’è la soluzione al problema della sostenibilità della vita dei freelance. Abbiamo, invece, cercato di sollevare alcune questioni di fondo che hanno a che fare con il Welfare e il “benessere” del lavoratore professionale autonomo. Vorrei presentarne sinteticamente cinquee:
Né imprese né gentiluomini o finti dipendenti…
Il primo nodo è quello della rappresentazione di questo tipo di lavoratori. Sebbene non siano figure nuove, emergenti o sconosciute, si tende a considerarle sempre degli outsider: estremamente talentuose, geniali, superconsulenti spesso anche un po’ ciarlatani, o al contrario figure residuali, vittime dell’ennesima ristrutturazione aziendale. Ecco, mai come in questo caso si può dire che la verità stia nel mezzo.
Un giurista come Adalberto Perulli ci ha detto che l’identikit, il ritratto antropologico che abbiamo tracciato è quello di “un prototipo umano” che la sua categoria, i giuristi, ancora non conosce abbastanza. Finora si sono regolati sulle professioni liberali e sulle figure di piccoli artigiani e commercianti. Il freelance, però, non è né l’uno né l’altro. Ciò significa che tra il dato normativo e la realtà oggi esiste uno scarto piuttosto significativo, un deficit di regolazione che non nasce a caso, ma è il prodotto di una sedimentazione di norme che interessa tra l’altro tutti i grandi capitoli del diritto, a partire dalla Costituzione.
Il Diritto Civile, per esempio, non mette a fuoco il lavoro autonomo, ma inquadra principalmente i contratti, primo tra questi il contratto d’opera. Non trova neppure facile contiguità con il Diritto del Lavoro. Il mondo dei freelance si sposta piuttosto in direzione del Diritto Commerciale. I freelance non sono però “imprenditori di se stessi”, mi spiace contraddire il titolo di questo incontro, almeno per tre ragioni che sono poi le stesse che presentiamo all’Agenzia delle Entrate quando entriamo in contenzioso per farci ridare soldi sottratti ingiustamente con l’IRAP.
La Corte di Cassazione è stata chiara. Primo: non abbiamo strumenti superiori a quelli di cui abbiamo bisogno. C’è differenza tra noi e chi ha un’officina: il nostro capannone è questo qui [il cervello], gli strumenti sono la conoscenza specialistica e spesso bastano un computer e un semplice cellulare. Secondo: non ci avvaliamo di risorse superiori a quelle necessarie per svolgere un lavoro in autonomia. Non abbiamo cioè dipendenti. Terzo: l’accumulazione non è un tratto che ci distingue sotto il profilo economico e produttivo. Non manovriamo capitali. Questo perché il sistema di ammortamento del valore generato sposta principalmente la tassazione sul lavoro e non potremmo fare impresa se non con un salto quantico verso un altro status, un’altra condizione.
Questa interpretazione “mercatista” e sbagliata, tuttavia, continua a marcarci stretta e mantiene vivo un paradosso per il freelance-impresa, diciamo così: se incappiamo in distorsioni del mercato il diritto italiano sostiene che la correzione di questa anomalia vada ricondotta al principio di protezione della concorrenza, non a quello del lavoro. Noi, però, siamo singoli lavoratori. Ce la dovremmo giocare alla pari con le multinazionali: è un falso storico, abnorme.
Il secondo falso storico di cui sono principalmente responsabili i sindacati è l’idea che siamo immersi in a una sorta di “pansubordinazione” del lavoro.