Vai lontano dal Paese che non ti merita

Questo Paese, il tuo Paese, non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio.

Sono le parole pesantissime e senza precedenti di Pier Lugi Celli, pubblicate oggi su La Repubblica e rivolte a suo figlio. Per chi non sapesse: è il direttore generale della Luiss, una delle massime istituzioni universitarie del Paese.

Questo è un Paese in cui, se ti va bene, comincerai guadagnando un decimo di un portaborse qualunque; un centesimo di una velina o di un tronista; forse poco più di un millesimo di un grande manager che ha all’attivo disavventure e fallimenti che non pagherà mai […] Questo è un Paese in cui nessuno sembra destinato a pagare per gli errori fatti; figurarsi se si vorrà tirare indietro pensando che non gli tocchi un posto superiore, una volta officiato, per raccomandazione, a qualsiasi incarico.

Dammi retta, questo è un Paese che non ti merita. Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito. Anche noi. Tu hai diritto di vivere diversamente, senza chiederti, ad esempio, se quello che dici o scrivi può disturbare qualcuno di questi mediocri che contano, col rischio di essere messo nel mirino, magari subdolamente, e trovarti emarginato senza capire perché.

Papi, il mondo del lavoro e le virtù deboli

Ogni fatto istituzionale ha rilevanza sociale e un impatto anche sulle relazioni di lavoro. Mi sono chiesto: quali conseguenze potrebbe avere il caso “Papi” sulla cultura del lavoro e sul tema del merito in Italia? Senza speculare troppo sui fatti di cronaca, vi propongo al contrario di fare epochè dei mille dettagli pruriginosi, e leggere questo bel testo di Pier Luigi Celli del 2007 che a mio avviso pare azzeccato per la situazione odierna. Si intitola “Le virtù deboli“.

Il brano è un po’ lungo (lo metto in download in coda), ma a mio avviso questi sono i passaggi principali che mostrano i legami possibili tra politica e mondo del lavoro:

Se è nell’impresa che si verificano le condizioni più problematiche per perseguire i canoni del rispetto, nel senso che la razionalità strumentale prevalente non considera rilevanti virtù modeste (deputate al riconoscimento personale, indipendentemente dalle posizioni, dai ruoli e dalle funzioni esercitate), è il contesto sociale, interpretato dalla politica, che finisce col mettere in crisi i canoni della dignità.
Succede che i meccanismi di selezione gerarchica e di cooptazione, puntando sulle affinità, i valori di adesione e di appartenenza, premiando gli adepti e puntando sulla fedeltà senza discussione, hanno progressivamente legittimato comportamenti conniventi, la rincorsa a farsi riconoscere e benedire; la voglia straripante a togliersi dai margini per entrare nel gioco a qualsiasi prezzo.
Quello della dignità in particolare.

E ancora:

Si è andato perdendo un principio fondante la correttezza dei rapporti all’interno degli organismi di interesse collettivo: e cioè che la dignità delle persone è un bene “individuale” che ha una qualche valenza sociale, nel senso che è spendibile in via allargata e qualifica positivamente l’organizzazione in grado di esprimerlo. […] In impresa è oggi particolarmente difficile ottenere rispetto. Si dice, e si invoca, una rivoluzione meritocratica nella promozione delle persone; poi, da un lato, si cercano solo quelli che possono garantire una fedeltà senza sbavature e, dall’altro, si esasperano connotazioni che tendono (anche per via stipendiale) a marcare le differenze e le distanze. È straordinario come gli uomini di impresa rimproverino alla politica esattamente quello che loro stessi affermano nei fatti quasi ogni giorno.

Al fondo c’è ancora il concetto (e la pratica) del rispetto dei valori, come riconoscimento reciproco di azioni e comportamenti coerenti con le dichiarazioni e con le aspettative. Non c’è merito nel clan, peggio, nella corte.

Qui il brano intero, tratto da Pier Luigi Celli, Le virtù deboli, Apogeo, 2007.