Leadership, reputazione e caste

Colgo subito l’occasione, vista la messa online di Conquiste del Lavoro, per citare una bella intervista (File .PDF) al filosofo politico Salvatore Veca (autore tra l’altro di La riforma del Welfare e un’idea di equità, Iride, 1997), che ho sempre apprezzato fin dai tempi delle “serate di Bollate”, piccola iniziativa che alla fine degli anni ’90 anticipava Modena e tutta la moda filosofica di oggi…  Dichiara Salvatore Veca sul tema della leadership:

“Usando espressioni un po’ crude, possiamo dire che quanto più andiamo verso il più alto tasso di tutela e, sostanzialmente, di formazione di autarchia, tanto più si manifesta una tendenza di tipo castale: le élite sono chiuse e la cooptazione ha carattere familistico. Ciò non è possibile se andiamo verso élite aperte all’esterno, esposte all’interazione con realtà diverse dalla loro, al di là dei confini nazionali. Perché in questo caso le élite devono disporre di un capitale cruciale che è quello della ‘reputazione’. La reputazione richiede delle cerchie di apprezzatori, cioè di coloro che valutano pregi e difetti. Se le cerchie sono esterne, magari composte da apprezzatori internazionali, la propria buona reputazione, le proprie virtù, hanno un’importanza decisiva per affermarsi. Se le cerchie sono interne, gli apprezzatori fanno parte dei ‘clientes’, di coloro i quali dall’appartenenza a quella cerchia traggono vantaggi e benefici. La valutazione della reputazione, in questo caso, è tutta interna, autoreferenziale, e legata al potere locale che quelle elite gestiscono”.

Il tema è di strordinaria attualità vista la fortuna dell’opera di G. Antonio Stella e Sergio Rizzo. La via d’uscita suggerita è quella di “aprire le caste”, forzarle al dialogo con le realtà internazionali o chi ha sufficiente autorevolezza per riconoscere i meriti (e bocciare gli incompetenti). Nella politica certo, ma anche nel mondo del lavoro, dove il nepotismo e la raccomandazione sono l’equivalente a livello sociale (e societario) nella costruzione di caste.

Vista dalla parte opposta, la questione può anche riguardare gli stranieri che accedono alle stanze dei bottoni italiani. Sono ben accetti? Di questo parlano oggi Loredana Oliva e Anna Marino su Job24 e mostrano come per fortuna talune imprese italiane siano già aperte al cambiamento. Si legge sul bel servizio “Arrivano manager stranieri” (file .TIFF), pubblicato sul Sole 24 Ore di oggi:

Se il successo dei manager italiani all’estero è un dato di fatto da una decina d’anni almeno, non lo è ancora il fenomeno contrario. Non ci sarà molto da aspettare per vedere anche le nostre aziende moltiplicare la presenza di capi venuti da lontano. I quali secondo Asa Executive Research, al momento rappresentano il 2,5% della popolazione dirigenziale e sono concentrati soprattutto nel top management (42%). In cinque anni raddoppieranno di numero per raggiungere l’8% nel 2017.”

Speriamo. Se la montagna non va da Maometto… Nel caso delle grandi imprese la natura internazionale dei mercati fa comunque gioco forza o perlomeno espone a venti nuovi. Resta da capire, invece, che cosa succede nelle realtà chiuse, quelle che vivono sotto il campanile, o per chi ha messo radici in Parlamento, nei Sindacati, in Confindustria.

Il nodo resta la reputazione, i sistemi per riconoscerla [nelle imprese non è complicato, basta guardare al merito, al talento, alle performance o semplicemente alle conoscenze messe in campo..] e la progressiva sostituzione di logiche locali e privatistiche. Ma chi è il soggetto reale di questa trasformazione quando dominano apertamente regole clientelari, lobby e inciuciopoli varie come se fossero norme di buoncostume?

Ultima modifica: 2007-07-11T10:39:38+02:00 Autore: Dario Banfi

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