Economia del gratuito, no grazie.

Non smetterò di ripeterlo, e da queste parti accade da anni (provate a fare una ricerca su Humanitech.it con parole chiave “lavoro” + “gratis”), che il lavoro gratuito ammazza la dignità professionale del singolo e le condizioni generali del lavoro. Lo dimostra il recente carteggio (.PDF) tra l’editore di Flash Art e una giovane desinger ora all’estero, che si è vista attribuire il simpatico epiteto di “mignotta” perché là ce l’ha fatta e qui in Italia al massimo si sarebbe infilata in finti lavori sottopagati o tirocini gratuiti a scarso (se non nullo) contenuto formativo. Una vicenda triste, abbondantemente commentata online.

Il consiglio che ripeto è di evitare il lavoro gratuito, se possibile, perché non fa male soltanto a chi è chiamato in causa, ma a chi gli sta a fianco e cerca un lavoro. Il mio è un invito, ma ho cercato spesso di mostrarne le ragioni profonde in particolare nel capitolo “Lavorare a che prezzo?” del libro Vita da Freelance (Feltrinelli, 2011), scritto con Sergio Bologna e in molti articoli di questo blog, alcune volte anche in maniera divertita (cfr. “Marcel Mauss non donava i suoi saggi agli editori“), perché alla fine lavorare gratis è parte di questo mondo e se non ci ragioni scherzando finisci per farti del male.

In alcuni approfondimenti pubblicati di recente ci hanno ragionato anche due brave giornaliste, Roberta Carlini che all’inizio del mese di agosto su L’Espresso (11/08/2011) realizzò l’inchiesta “Noi costretti a lavorare gratis” (qui in .PDF) e poi Loredana Saporito, che ha pubblicato in questi giorni su Glamour (n.237 novembre 2011) un articolo del medesimo segno critico, dal titolo “Basta lavorare gratis!” (.PDF in download). In entrambi gli articoli sono riportate le argomentazioni di Silvia Bencivelli, Eleonora Voltolina (La Repubblica degli Stagisti) e del sottoscritto [che mi fa pensare che forse dovremmo parlarci un po’ di più su questi temi, visto che la pensiamo poi, a distanza, allo stesso modo]. Di seguito l’articolo pubblicato su Glamour:

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Tu che lavori per la gloria

Da queste parti lo scriviamo da tempo e pure abbiamo deciso di dedicare un capitolo di un libro alla questione, lavorare gratis è la rovina del freelancing. Su segnalazione della brava Roberta Carlini (che ha recentemente moderato la presentazione di Vita da freelance a Roma), segnalo a mia volta il post “Diciamo no al volontariato: perché non si deve mai lavorare gratis“, della giornalista scientifica Silvia Bencivelli che dice basta al malcostume di redazioni, università & Co. di cercare lavoro gratuito a ogni angolo di strada. Fulminante, stupendo questo passaggio:

Ci sono quelli che  se si risparmiano un biglietto del treno è meglio: già che sei da queste parti, fai un salto da noi così facciamo riunione? Ci sono quelli che non ti pagano e ogni volta ti promettono che lo faranno, e tu continui a scrivere per loro perché in fondo è una buona vetrina. Quelli che ammettono candidamente da subito che non ti pagheranno mai, e tu apprezzi l’onestà. Quelli che ti contattano loro, però poi ti chiedono di fare una prova (una prova?!), ovviamente non pagata, quelli che ti chiamano a un colloquio ma non ti pagano il treno, quelli che ti scrivono chiedendoti consigli o facendoti proposte di lavoro così confuse non ti accorgi nemmeno che non si fa nessuna menzione al vile denaro. Quelli che hanno avuto un’idea, quelli che hanno finalmente capito che cosa fare da grandi, quelli che hanno organizzato il congresso della loro vita. E tutti ti vogliono coinvolgere perché ti stimano un sacco, ma non ti possono pagare.

Credo che sia arrivato il momento di dire no al volontariato. No. Per me, perché anche se è vero che il mio lavoro assomiglia a un hobby, e a volte si tratta di fare cose divertenti che farei anche per niente, non posso svendere quel che faccio. E’ il mio lavoro: me lo sono praticamente inventato da me ed è la cosa più preziosa che ho. Devo rispettarlo, accidenti. E poi no per tutti gli altri. Perché chi lavora gratis rovina il mercato. Se lavori gratis, chi ti fa lavorare sceglierà sempre te solo per questa ragione. E quindi tu non migliorerai e produrrai cose sempre mediocri, la tua professionalità e il lavoro che svolgi saranno svalutati, i tuoi colleghi non riusciranno a farsi pagare e la qualità del lavoro si abbasserà.

(Via Silviabencivelli.it)

Con curiosa corrispondenza di valutazione sull’argomento, nel post di Humanitech.it “Lavorare scrivendo. Marcel Mauss non donava i suoi saggi agli editori!” scrivemmo anche noi, da queste parti:

Il tempo non retribuito e lo scambio mezzi di produzione non propri contro le “opportunità di fare” aumentano il rischio di svalutazione delle proprie opere e più in generale il valore della propria attività. Aumentano i costi con cui andate a intaccare quella riserva acquisita di sapere che trasformate in opere. E poi che cosa avrete da dare? Da donare, al termine del lavoro gratuito?

I peones della jackpot economy

Huffington Post: 25 milioni di lettori, valore 315 milioni di dollari. Il progetto madre di tutti i progetti di giornalismo partecipativo, di gift economy e rivoluzione in rosa del citizen journalism alla fine entra a piè pari nel capitalismo editoriale, vende e incassa. Porta a casa il suo jackpot – diamine, come ha ragione Andrew Ross – e una rivalutazione (per non dire uno stipendio, che suona troppo novecentesco) di 2 milioni di dollari all’anno per la direzione editoriale.

Alla fine ai peones che ci scrivono gratuitamente non resta che staccare la spina, buttandola in rissa nel gruppo su Facebook “Hey Arianna, Can You Spare A Dime?“. Il NYT, calcoli alla mano, dice che tanto si tratta di manodopera unpaid che non produce poi così tanto traffico, si possono buttare a mare. L’alternativa sarebbe una cosa mai vista nella storia del capitalismo, ovvero il profit sharing ex post di un’iniziativa partecipativa su larga scala, ovvero la ripartizione del jackpot. Dubito avvenga, anche se vorrei tanto: sarebbe una vera rivoluzione, più radicale di quella giacobina. La Comune digitale. In realtà, abbiamo soltanto reso elettronico il modello degli sweatshops: ora si chiama digital piecework

Attendo curioso di leggere un bell’articolo su Il Post, Nova 100, Il Fatto Quotidiano, Blogosfere (un sito che in piccolo ha replicato tempo fa il modello Huffington Economy) e altri aggregatori nostrani a firma dei “giornalisti del dono” italiani su questo argomento. Attendo il commento dei blogger e giornalisti italiani che scrivono gratuitamente per le testate nostrane e mi chiedo, ma perché cazzo lo fate?

Se vi interessa, qui trovate alcune reazioni italiane:

Cortesemente togli i piedi dalla mia testa

Chi è capitato su questo blog e non mi conosce da tempo deve sapere che ho sempre posto una particolare attenzione alle questioni di metodo legate agli aspetti di negoziazione e di valutazione del lavoro indipendente. Per due motivi: per confrontarmi; per condividere con altri – che sono nella mia stessa condizione – scelte e giudizi maturati con l’esperienza. Oggi provo con questa lista di regole che implicitamente mi sono dato per svolgere con coerenza il mio lavoro da freelance. Riguardano quotazioni, pagamenti, stile di negoziazione. Che ne pensate?

10 regole per lavorare come freelance (senza farsi mettere i piedi in testa)

  1. Non svendere il tuo lavoro e il tuo sapere;
  2. Insieme al “cosa” definisci sempre anche il “quanto”. Non pensare che ex post siano tutti onesti, anzi fai molta attenzione alle formule implicite perché saranno quasi sempre smentite dai fatti (chiedete ai giornalisti freelance);
  3. Lavorare gratis per chi fa profitti è dumping sociale! Se devi dare un contributo gratuito fallo unicamente per chi opera senza finalità di profitto (Associazioni, Università, eventi autogestiti ecc.);
  4. Se vuoi condividere un tuo sapere professionale senza trarne diretto beneficio economico [vendita] allora proteggilo per sempre con le corrette licenze d’uso da chi potrebbe trarne profitto e denuncia apertamente chi lo usa fuori dalle regole di licenza d’uso;
  5. Non utilizzare impropriamente la collaborazione di altri, ma pagala il giusto. Se usi mezzi di produzione open source restituisci qualcosa alla comunità. Decidi tu che cosa fare, ma non far finta di nulla perché sei in debito;
  6. Non accettare casi di insolvenza nei pagamenti: fatti sentire, insisti (con educazione), fatti assistere dalla tua comunità di interessi, fai pressione, magari denunciando a chi sta vicino ai cattivi pagatori i casi di illecito. In ultimo, non avere paura di fare causa civile. Il lavoro ha una sua dignità, falla rispettare;
  7. Quota sempre prima l’esperienza e il valore, poi il tempo;
  8. Non collaborare con chi usa esplicitamente metodi e valutazioni degradanti sul mondo del lavoro autonomo;
  9. Ricordati di essere libero e che esistono anche le parole “no”, “basta, fai pure da solo”, “grazie, ma non è nelle mie corde accettare queste condizioni di lavoro”;
  10. Cerca di trovare un rimedio e chiedi scusa a chi hai arrecato involontariamente danno violando uno di questi principi.

Marcel Mauss non donava i suoi saggi agli editori!

Di seguito vi lascio copia di uno speech tenuto all’Università Statale di Milano il 6 ottobre 2010 in occasione della conferenza “Anche gli intellettuali lavorano. C’è futuro per il lavoro cognitivo nella città del fare?“, organizzato da Giannino Malossi e dal team di Alfabeta2 per l’uscita del secondo numero. Perdonate il ritardo nella pubblicazione, ma ho appena riaperto bottega :-)

Lavorare scrivendo. Marcel Mauss non donava i suoi saggi agli editori!

Sono un lavoratore professionale autonomo che svolge attività di tipo intellettuale. Mi sono proprio ficcato in un bel guaio, direte. Anzi due.

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Del lavorare gratis

Negli ultimi anni il tema della gratuità e la ridondanza delle questioni legate all’economia del dono [alle quali, per fortuna, sono rimasto del tutto immune, avendo letto chi ha sminuzzato Mauss senza troppo clamore (Cfr. il paragrafo “Donare il tempo ha un costo individuale” di questa pagina)] sembrano avere dominato tra i blogger. Nessuno però ha mai osato innestare il dibattito in  questioni di lavoro: l’esposizione personale evidentemente è troppo alta.

Vi segnalo uno spunto di riflessione molto interessante (“Giving It Away: The Impact of Free Labor“) pubblicato su Web Worker Daily sul free labour online. L’autore, dopo avere avuto notizia di collaboratori non pagati che accettano di mandare pezzi a note riviste soltanto per far apparire la propria firma, si chiede:

When you do choose to do something for free, does it weaken the revenue-generating powers of the industry as a whole?

Senza ipocrisie, dichiara apertamente di scrivere gratis per alcuni editori. Rispettando, però, questa unica regola:

I try to limit the work I do for free to clearly defined categories. That is, I will work for free in segments where I don’t think enough capital exists to support an ecosystem of paid professionals.

Ovviamente, si dice, è una logica facilmente attaccabile che può addirittura essere ribaltata:

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L’ultimo arrivato e la legge dell’asticella

Articoli a 2,5 euro. Massimo Mantellini pare sia sorpreso per questo tipo di retribuzioni offerte ai giovani neolaureati. Eppure in ambito giornalistico sono anni che vengono denunciati abusi di ogni tipo e che si lotta per previdenza e assistenza.

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