Del lavorare gratis

Negli ultimi anni il tema della gratuità e la ridondanza delle questioni legate all’economia del dono [alle quali, per fortuna, sono rimasto del tutto immune, avendo letto chi ha sminuzzato Mauss senza troppo clamore (Cfr. il paragrafo “Donare il tempo ha un costo individuale” di questa pagina)] sembrano avere dominato tra i blogger. Nessuno però ha mai osato innestare il dibattito in  questioni di lavoro: l’esposizione personale evidentemente è troppo alta.

Vi segnalo uno spunto di riflessione molto interessante (“Giving It Away: The Impact of Free Labor“) pubblicato su Web Worker Daily sul free labour online. L’autore, dopo avere avuto notizia di collaboratori non pagati che accettano di mandare pezzi a note riviste soltanto per far apparire la propria firma, si chiede:

When you do choose to do something for free, does it weaken the revenue-generating powers of the industry as a whole?

Senza ipocrisie, dichiara apertamente di scrivere gratis per alcuni editori. Rispettando, però, questa unica regola:

I try to limit the work I do for free to clearly defined categories. That is, I will work for free in segments where I don’t think enough capital exists to support an ecosystem of paid professionals.

Ovviamente, si dice, è una logica facilmente attaccabile che può addirittura essere ribaltata: chi non paga e chi sceglie di non farsi pagare determinano loro un mercato così fatto, che altrimenti non esisterebbe. Siamo ancora una volta a chi viene prima, se la gallina ecc. Gli accordi per attività gratuite sono “fatti privati”, si ribatte. Rendendo però non professionale il risultato, si controreplica. Il vizio di fondo è spesso “the faint hope of a paid position…“.

Lavorare gratis permette di costruire un portfolio. Non si può negare, ma quando l’industria ha compreso tutto questo non fa altro che far schiantare i compensi, non alzarli. Il mercato del lavoro giornalistico in Italia ne è una prova. Fuori confine tutto questo sembra già andare oltre i writer professionali: si veda, esempio, la campagna americana NO! SPEC contro i professionisti della creatività.

Quale discrimine porre dunque al lavoro gratuito? Personalmente non ho una risposta esatta, ma alcune sensazioni:

1. giocarsela come fatto personale (“posso permettermi di farlo” ecc.) è la risposta peggiore… perché esiste una legge dell’asticella che non può essere elusa;
2. affermare che si offre gratuitamente il proprio lavoro soltanto a chi non ha soldi per mantenere vivo un mercato è una posizione incompleta: si dovrebbero anche avere garanzie sul mantenimento di una situazione siffatta di mercato (magari con sistemi copyleft), evitando che diventi profittevole, perché nessuno dice grazie ex post;
3. offrire lavoro gratis ai mercati deboli dovrebbe essere accompagnato da una dichiarazione pubblica di chi guida questi mercati affinché sia evidente di che cosa stiamo parlando in termini macroeconomici e nel dettaglio;
4. si deve guardare molto molto bene al mascheramento di iniziative imprenditoriali basate sulle finte opportunità e ai volemose bene;
5. non farebbe male leggere analisi oggettive di casi di studio italiani recenti (Nanopublishing, Current, Blogosfere, organizzazione dei BarCamp ecc.) per capire da dove sono partiti e dove sono approdati.

Voi che cosa ne dite?

Ultima modifica: 2009-02-19T12:51:29+01:00 Autore: Dario Banfi

4 commenti su “Del lavorare gratis”

  1. Mi è capitato di lavorare gratis. Con una regola aurea: si può lavorare gratis per qualcosa, mai per qualcuno. Dove qualcosa non è ovviamente il proprio personale tornaconto, altrimenti già si rientra nella categoria qualcuno. O il tornaconto di altri: bisogna stare attenti.

    Chi si bea della pubblicazione della propria firma e per ciò è disposto a tutto, non solo a lavorare gratis ma a pagare per poterlo fare, è un pusillanime che andrebbe frustato sulla pubblica piazza. Chi pensa (certi giovinetti, altri per fortuna no) di potersi costruire una carriera cominciando a perdere pezzi di diritti fondamentali non solo per loro, dovrebbe vedersi decurtata la paghetta mensile familiare e diventare di colpo grande, ché tanto alla sua età è ora.

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  2. Grazie a te. Ahem. Scusa se la butto un po’ in cazzeggio, ma ho appena visto questo su corriere.it e non ho potuto trattenermi:

    Eva Mendes: «Da piccola volevo farmi suora. Finché un giorno mia sorella Rebecca mi disse: “Ma lo sai, vero, che le suore non vengono pagate?” Non parlai più di prendere i voti»

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