Tecnolibertari e posti di lavoro

Ogni tanto qualche interessante analisi che esce dal coro dei soliti tecnolibertari, fan dell’avvenirismo tecnologico e figli minori di Marcel Mauss, e affronta insieme due temi quasi mai accostati (almeno in Italia, oltreoceano A. Ross ha invece fatto da apripista da tempo): il mito della piazza globale di Internet e la decostruzione del mercato del lavoro, così come lo abbiamo conosciuto finora:

La diffusione di Internet ha prodotto un’accelerazione talmente radicale nella trasmissione di informazioni anche complesse da averne prodotta una altrettanto impressionante nella finanziarizzazione dell’economia, creando le condizioni per il trasferimento di capitali ingentissimi in tempo reale da una piazza finanziaria all’altra (con relativa facilitazione della speculazione). Altre conseguenze problematiche si rinvengono nella sua capacità di sostituire la mano d’opera sul fronte dell’offerta dei servizi, scaricando lavoro sul fronte della domanda, quella appunto dei consumatori. Chi acquista un biglietto ferroviario via Internet svolge personalmente un lavoro che sarebbe altrimenti stato a carico dell’offerta (bigliettaio) o che comunque sarebbe stato intermediato da una persona fisica (agente di viaggio). Non solo quindi, come diceva Jean Baudrillard, il consumatore diviene sempre più qualcuno che paga per lavorare al servizio del capitale (nel caso dei libri su Amazon.com facendo autonomamente ricerca senza aiuto del venditore e perfino scrivendo piccole recensioni a uso dei succesivi acquirenti) ma la tendenza alla riduzione dei posti di lavoro del capitalismo tecnologico-cognitivo è sotto gli occhi di tutti.
È chiaro che la globalizzazione e l’ampliamento dei mercati distributivi resi possibile dal Web produce una serie di effetti collaterali solitamente sottostimati che comunque presentano costi sociali non indifferenti. Non solo posti di lavoro persi, ma anche tendenza alla spedizione da grande o grandissima distanza che inquina l’ambiente e si colloca in tendenza radicalmente opposta rispetto al modello «a Km 0» raccomandato dagli ambientalisti. Inoltre, Internet rende tutti dipendenti dalla tecnologia informatica e dalle grandi imprese delle telecomunicazioni che gestiscono l’ accesso alla rete. Infatti l’accesso alla piazza è precluso a chi non ha un collegamento via cavo o celluare, cosa per nulla scontata in molti contesti disagiati.

Da “Beni comuni, pratiche egemoniche nella rete“, Ugo Mattei, Il Manifesto, 1 marzo 2011.

I peones della jackpot economy

Huffington Post: 25 milioni di lettori, valore 315 milioni di dollari. Il progetto madre di tutti i progetti di giornalismo partecipativo, di gift economy e rivoluzione in rosa del citizen journalism alla fine entra a piè pari nel capitalismo editoriale, vende e incassa. Porta a casa il suo jackpot – diamine, come ha ragione Andrew Ross – e una rivalutazione (per non dire uno stipendio, che suona troppo novecentesco) di 2 milioni di dollari all’anno per la direzione editoriale.

Alla fine ai peones che ci scrivono gratuitamente non resta che staccare la spina, buttandola in rissa nel gruppo su Facebook “Hey Arianna, Can You Spare A Dime?“. Il NYT, calcoli alla mano, dice che tanto si tratta di manodopera unpaid che non produce poi così tanto traffico, si possono buttare a mare. L’alternativa sarebbe una cosa mai vista nella storia del capitalismo, ovvero il profit sharing ex post di un’iniziativa partecipativa su larga scala, ovvero la ripartizione del jackpot. Dubito avvenga, anche se vorrei tanto: sarebbe una vera rivoluzione, più radicale di quella giacobina. La Comune digitale. In realtà, abbiamo soltanto reso elettronico il modello degli sweatshops: ora si chiama digital piecework

Attendo curioso di leggere un bell’articolo su Il Post, Nova 100, Il Fatto Quotidiano, Blogosfere (un sito che in piccolo ha replicato tempo fa il modello Huffington Economy) e altri aggregatori nostrani a firma dei “giornalisti del dono” italiani su questo argomento. Attendo il commento dei blogger e giornalisti italiani che scrivono gratuitamente per le testate nostrane e mi chiedo, ma perché cazzo lo fate?

Se vi interessa, qui trovate alcune reazioni italiane:

Algoritmi che annullano la qualità del lavoro

Sempre in tema di Jackpot Economy, ma scritto partendo da un altro punto di vista, quello degli algoritmi di ricerca dei contenuti web, dietro ai quali – guarda a caso – c’è del lavoro:

“Così per una notizia originale, artigianale, e prodotta con 2-3 ore di lavoro e di ricerca, dopo poche ore a partire da questa ce ne sono almeno altre 100  scopiazzate e prodotte in 10 minuti, a cui poi seguono  altre 1.000 tra aggregatori, catalogatori e finti blog,  tutte fatte senza lavoro. Techcrunch non lo dice, ma la colpa principale è di Google, che davanti a 1 contenuto vero ed artigianale, e 100 copie sciatte, e 1.000 url farlocche di aggregatori NON fa differenza. Non vuole, o non riesce.”

(via Luca Lani, “Fast Food Content“)

Esemplare spiegazione di come lieviti in poco tempo il jackpot. Ma la causa di questo livellamento sta nell’algoritmo che non distingue la fonte originale e che non può essere migliorato o piuttosto nel volere non suddividere la remunerazione dei profitti generati, ovvero dalla sensazione di poter mettere le mani da soli sul jackpot?