Di seguito vi lascio copia di uno speech tenuto all’Università Statale di Milano il 6 ottobre 2010 in occasione della conferenza “Anche gli intellettuali lavorano. C’è futuro per il lavoro cognitivo nella città del fare?“, organizzato da Giannino Malossi e dal team di Alfabeta2 per l’uscita del secondo numero. Perdonate il ritardo nella pubblicazione, ma ho appena riaperto bottega :-)
Lavorare scrivendo. Marcel Mauss non donava i suoi saggi agli editori!
Sono un lavoratore professionale autonomo che svolge attività di tipo intellettuale. Mi sono proprio ficcato in un bel guaio, direte. Anzi due. Sono anche un “professionista” iscritto a un Albo, ma non credo alla filosofia del professionalismo, alla codifica ex ante delle competenze. La presenza di ordinamenti è oggi subordinata a troppi obiettivi politici:
- intercettare soldi per fare formazione;
- definire tariffari per creare lobby di mercato (obiettivo fallito miseramente per alcuni di fronte a committenti che non sono inermi cittadini);
- acquisire il potere di certificare il sapere;
- costruire sistemi di protezione sociale “privati” o “controllati”.
Oggi il professionalismo mostra i suoi difetti: ne fanno le spese giornalisti, geometri, architetti, avvocati, praticanti di ogni genere costretti in percorsi e sentieri interrotti, obbligati su strade che nel gioco forza della crisi costringono a sacrificare il lavoro, invece di difenderlo o tutelarlo. Io ho scelto di mettere da parte il professionalismo in senso stretto. Lo so è un messaggio che per chi sta seguendo percorsi a tappe per acquisire un titolo di studio può suonare blasfemo, ma vorrei fare un passo indietro oggi, parlando di alcuni elementi di base con cui affrontare la questione della produzione delle opere dell’ingegno. Gli intellettuali lavorano, è vero. Ma come si fanno strada?
User generated economic values
Credo e sono certo di non sbagliarmi nel dire che mi trovo di fronte a una generazione di persone che fanno un uso piuttosto intensivo di Internet. Che tra di voi ci siano molti autori di user generated content o come scrive Carlo Formenti di “prosumer”, ovvero produttori/consumatori. “Molti oggi scrivono per passione. Perché trovano soddisfazione personale, spinti da motivazioni individuali, più che dalla ricerca di profitto. L’economia dell’informazione evolve verso capitalismo distribuito”, ha scritto su Alfabeta2 Formenti. È vero. Aldo Bonomi lo chiama “capitalismo molecolare”, Andrew Ross, citando Mario Tronti, lo definisce più recentemente “social factory” (socialismo coopertativo).
In questo fenomeno c’è un fatto importante, che non è stato rimarcato forse a sufficienza: i mezzi di produzione, oggi le tecnologie digitali, hanno consentito di abbattere considerevolmente i costi di produzione! Il lavoro certosino di pubblicazione di un’enciclopedia può essere fatto online a costo zero, escludendo i costi legati al tempo di redazione tecnica. Spesso si giustifica l’intervento online come lo sviluppo di un’economia che cerca la felicità, che trova il suo coronamento nel dono, nella gratuità. Nel dare qualcosa allo spazio sociale, come contributo personale. Una giustificazione teorica che ha trovato nel mondo dei blog italiani, per esempio, una grande adesione.
Donare il tempo
Anni fa, in moltissimi citavano Il Saggio sul Dono di Marcel Mauss. Internet, come le società arcaiche. Le digital social factory come le tribù, dove la moneta è assente. Leggendo queste argomentazioni, mi venne in mente il saggio Donner le temps (Donare il Tempo, Cortina, Milano 1996) di Jacques Derrida, dove si trovano spunti che hanno un’attualità strepitosa. Si legge, per esempio:
“Oltre ai valori di legge, casa, distribuzione e spartizione, l’economia implica l’idea di scambio, di circolazione e ritorno. E’ l’oikonomia. Scambio circolare di beni, prodotti, opere, segni monetari. Le legge dell’economia è il ritorno al punto di partenza, all’origine, alla casa”. (Cit., pag. 8).
Alle home page, diremmo oggi. Scriveva Marcel Mauss del dono che miracolosamente, nella sua gratuità, “restituisce sempre qualcosa”. L’antropologo si chiedeva, però, a ragione, quale norma di diritto e di interesse facesse sì che il dono ricevuto fosse obbligatoriamente ricambiato. Quale forza nella cosa donata fa sì che il donatario la ricambi? Non subito la ricambi, ma chissà quando. Poi. La forza la indicò senza mezzi termini Derrida:
“Il dono, se ce n’è, si rapporterebbe senza dubbio all’economia. Non si può trattare del dono senza trattare di questo rapporto con l’economia, ed è ovvio, perfino con l’economia monetaria”.
A dispetto della gratuità, la circolarità che dà forma alle dinamiche del dono è la medesima dell’oikonomia. E qual è il nesso con l’economia? Il tempo. Il valore del tempo. Precisa ancora meglio il filosofo francese:
“Il dono non è dono, non dona che nella misura in cui dona il tempo. Il dono, rispetto a ogni altra operazione di scambio, dona il tempo. E chiede il tempo, perché la cosa donata non sia restituita immediatamente”.
Erodere il valore “se stessi”?
E a questo punto azzardiamo un’operazione di contaminazione, passando nel mondo del digitale. Tempo fa mi sono imbattuto nella costruzione di un modello econometrico pensato per salvaguardare gli interventi tecnologici e d’innovazione nelle imprese per “guadagnare dalle mancate perdite”. Un modello interessante perché parte da un Capitale che c’è. Non che va costruito. Non è un ROI, ma un RROI, che identifica cioè il Reduced Risk on Investiment.
Ve lo propongo e ve lo affido. Guardate come è fatto nella slide 2. Posta la presenza di qualcosa (in un’impresa) che abbia un valore “A” il RROI serve a capire se quando si mettono dei soldi su un intervento di miglioramento, si fa bene.
RROI => A (V[a]dopo l’intervento – V[a]di partenza) > Costo di intervento
Conviene fare quando l’azione per portare migliorie costa meno del risultato che si ottiene. Intuitivo, no? Questo modello dice che non siamo a bocce ferme. “A” esiste. Proviamo (come nella slide 3) ad applicare questo modello a noi che svolgiamo attività di tipo intellettuale e vedremo che saltano fuori cose interessanti. Possiamo? Beh, siamo nell’economia biopolitica. Indossiamo valori ed esperienza, abbiamo in tasca mezzi di comunicazione, viviamo in un territorio che offre e chiede. Abbiamo studiato, letto, scritto, parlato. Non siamo più nella civiltà arcaica. Il Capitale intellettuale NOI esiste. O no? L’intellettuale, come noto, vuole produrre opere.. passare dal suo Valore A a una situazione migliore. No? Ha un patrimonio, lo deve aumentare, passando dal percorso del Lavoro, della produzione.
Poniamo di essere lavoratori della conoscenza, che 1) sanno e 2) sanno fare cose che insieme mi definiscono come “A”. Io sono nella situazione di rappresentare un valore A. Ebbene ogni opera che potrei produrre, mettere sul mercato, vendere o donare, in ogni caso conviene se non mi danneggia. Intuitivo, no? Ovvero se il costo del mio fare è inferiore a quello che mi definisce come Autore, Produttore, Scrittore, Lavoratore professionale al termine dell’opera. Altrimenti mi conviene non fare nulla.
Tempo, mezzi e cessione del valore
E di quale costo stiamo parlando per un intellettuale? O meglio per un produttore di opere dell’ingegno? Perdonate le semplificazioni. Eliminiamo i costi sociali, troppo complessi da analizzare in poco tempo. Restano due cose: tempo e mezzi di produzione (e distribuzione, in alcuni casi). Tempo retribuito o non retribuito, mezzi miei o non miei. Ma se è retribuito, il tempo non è più un costo. E se i mezzi non sono miei, neppure quelli. E l’opera? Può rimanere a me o può essere ceduta. Tre cose, dunque: tempo, mezzi e cessione del valore. Il tempo di cui parla Jacques Derrida, i mezzi di cui parla Marx, il valore che viene capitalizzato. E’ noto che il tempo che sta nel circolo dell’economia può essere o non essere retribuito, con la moneta, o altro. Vediamo alcuni casi possibili nei quali potreste imbattervi.
Puntare sulla Jackpot economy
Nel segmento del mercato del publishing americano sono andati persi negli ultimi 10 anni il 36% dei posti di lavoro e a questo proposito Andrew Ross scriveva:
“Può essere considerata plausibile l’idea che molto del lavoro che si è generato nel gap tra vecchi e nuovi media sia stato trasferito negli interstizi nell’economia degli utenti che prevale sul Web. Considerare la questione della corrosione delle retribuzioni del lavoro professionale è solo metà del problema, ma è proprio quella che i tecnolobertari negano nel descrivere le meraviglie del self-publishing e della liberazione dai vincoli degli editori (NdR: ovvero, i mezzi). La cosa più interessante è che il materiale prodotto dalla social economy online è sempre più materiale per motori e sistemi di speculazione e profitto”.
Nel mondo del lavoro freelance il premio è l’autonomia, ma la trappola è là che aspetta. E si chiama downgrading, ribasso, dumping. Giocato sul filo di lana con il lavoro gratuito. Dice Ross che chi ha sempre visto il cyberspazio come paradiso di libertà è notoriamente cieco nei confronti dell’impatto che questo ha avuto sul tagli dei costi nel mercato del lavoro. Inutile negare: il potenziale per scardinare il modello capitalistico e l’organizzazione del lavoro è elevatissimo. Così come quello di costituire mercati del gratuito ed economie alternative di ogni sorta, ma c’è qualcosa che non funziona del tutto. Chissa perché, come dice Andrew Ross “i vecchi media sono chiaramente allineati con l’etica neoliberale della Jackpot Economy che chiede a tutti di partecipare a un gioco che però remunera soltanto pochi”.
L’idealizzazione della gratuità
Molte di queste situazioni spingono chi svolge attività cognitiva e intellettuale in un angolo, costringendolo a trovare opportunità dove si mascherano iniziative d’impresa. Sul questo blog qualcuno scrisse: “Io lavoro gratis, ma per qualcosa, non per qualcuno!” Il rischio più alto è di nascondere nella dinamica di piccolo cabotaggio, valori più complessi. I rapporti di forza, come capite, sono oggi ridimensionati e alcuni meccanismi cercano di farli sparire, spalmando sul singolo il rischio, il differimento del valore. Chiedono il dono del tempo con differimento infinito, come se fosse una liberazione, in realtà celano meccanismi di costruzione di Jackpot da riscattare.
Ardvidsson, Malossi e Serpica Naro non sono del tutto distanti. Scrivono nel loro articolo su Alfabeta2:
“La tendenza verso l’individualizzazione e la politicizzazione del lavoro immateriale sembra una caratteristica della fase neoliberale del capitalismo dell’informazione”.
L’importante è partecipare (dicono)
Siamo pagati con opportunità di mezzi e o di partecipazione alla costruzione di brand altrui, ma il rischio, se lo si vuole mettere comunque sul piano individuale, è altissimo. Per il singolo, prima di tutto, e soltanto la riflessione collettiva può affermarlo o stanare il problema. È vero c’è sempre il rischio per gli intellettuali di essere fuori tempo, pensare ciò che non accade oggi, ma nell’oggi quando si lavora su ciò che interessa alle Imprese occorre fare i conti con il costo dell’intelligenza. Almeno su questo, non facciamoci chiedere da altri di aspettare troppo tempo. Il tempo che non dovremmo mai donare. Alla fine, Marcel Mauss il suo Saggio sul dono non lo regalò agli editori.
Il tempo non retribuito e lo scambio mezzi di produzione non propri vs opportunità di fare aumentano il rischio di svalutazione delle proprie opere e più in generale il valore della propria attività. Aumentano i costi con cui andate a intaccare quella riserva acquisita di sapere che trasformate in opere. Alzando i costi (vedi la slide 5), rimandate il momento della vostra crescita.
E poi che cosa avrete da dare? Da donare, al termine del lavoro gratuito?