Huffington Post: 25 milioni di lettori, valore 315 milioni di dollari. Il progetto madre di tutti i progetti di giornalismo partecipativo, di gift economy e rivoluzione in rosa del citizen journalism alla fine entra a piè pari nel capitalismo editoriale, vende e incassa. Porta a casa il suo jackpot – diamine, come ha ragione Andrew Ross – e una rivalutazione (per non dire uno stipendio, che suona troppo novecentesco) di 2 milioni di dollari all’anno per la direzione editoriale.
Alla fine ai peones che ci scrivono gratuitamente non resta che staccare la spina, buttandola in rissa nel gruppo su Facebook “Hey Arianna, Can You Spare A Dime?“. Il NYT, calcoli alla mano, dice che tanto si tratta di manodopera unpaid che non produce poi così tanto traffico, si possono buttare a mare. L’alternativa sarebbe una cosa mai vista nella storia del capitalismo, ovvero il profit sharing ex post di un’iniziativa partecipativa su larga scala, ovvero la ripartizione del jackpot. Dubito avvenga, anche se vorrei tanto: sarebbe una vera rivoluzione, più radicale di quella giacobina. La Comune digitale. In realtà, abbiamo soltanto reso elettronico il modello degli sweatshops: ora si chiama digital piecework.
Attendo curioso di leggere un bell’articolo su Il Post, Nova 100, Il Fatto Quotidiano, Blogosfere (un sito che in piccolo ha replicato tempo fa il modello Huffington Economy) e altri aggregatori nostrani a firma dei “giornalisti del dono” italiani su questo argomento. Attendo il commento dei blogger e giornalisti italiani che scrivono gratuitamente per le testate nostrane e mi chiedo, ma perché cazzo lo fate?
Se vi interessa, qui trovate alcune reazioni italiane:
- Dalla Gift Economy alla Huffington Economy (Alessandro Bottoni)
- Il valore dei Blog dell’Huffington Post (Il Giornalaio)
- Il modello “Huffington Post” e i bloggers che scrivono gratis (Questione della decisione)
- Rivolta dei bloggers: cara Arianna, non lavoriamo più gratis (La Stampa)