Su questo si stanno interrogando seriamente negli Stati Uniti, dove un gruppo di difensori dei diritti civili del Texas sta ragionando [cfr. “EL PASO’S NEWEST CRIME WAVE: A Wage Theft Epidemic in the Borderlands” .PDF in download] sulla possibilità di richiedere l’introduzione del reato di “furto di retribuzione” per quei datori di lavoro che inquadrano non correttamante i lavoratori indicando per loro un ruolo di independent contractor, lavoratori autonomi, quando invece sono a tutti gli effetti dipendenti. I vantaggi? Un evidente risparmio sul costo del lavoro, un furto al singolo e alla collettività. Questo si verifica nelle zone di confine del Texas, per esempio nel mondo dell’edilizia, dove – in barba alle indicazioni dell’IRS – Internal Revenue Service, l’Agenzia federale delle Entrate – viene misconosciuto il cosiddetto protocollo1099, producendo una violazione del diritto che negli Usa chiamano “1099 misclassification” [cfr. “What is 1099 Misclassification?” . PDF in download] e che in Italia definiremmo semplicemente “lavoro grigio” o “false partite IVA”. Mentre da noi si passa sopra a tutto e tutti (i diritti), nello Stato del Texas la volontà di colpire duro le irregolarità porterebbe chi taglia contributi e stipendi a finti freelance dritti nelle braccia del diritto penale, attribuendo loro il (nuovo) reato di “furto di retribuzione”, un’idea che la Freelancers Union americana non ha tardato a rimettere in circolo in tutti gli Stati attraverso il suo canale Twitter.
Retribuzioni
Supposizioni fiscali
Dalla mia commercialista ieri.
– Eh già…, è come le ho detto al telefono. Per l’Unico 2011 lei è fuori dai parametri…
– Da che?
– Dai parametri.
– Mi scusi, ma la mia professione non è esclusa dagli studi di settore?
– Sì, dagli studi di settore non dai parametri.
– E che cosa sono?
– I parametri.
[Eh certo, così è tutto più più chiaro]
– Cioè?
– Sono parametri che misurano la congruità dei valori che lei dichiara al Fisco. Stando a questo sistema lei avrebbe dovuto guadagnare nel 2010 circa 5.000 euro in più di quelli dichiarati…
– Bravi, mi piacerebbe.
– Sono i parametri, mi spiace.
– Ho capito e allora con ‘sti parametri che cosa ci facciamo?
– Deve decidere se adeguarsi o dichiarare la sua non congruità.
– Cioè?
– Se decide di adeguarsi deve versare l’IVA sui redditi presunti, altrimenti avrà un accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate, ed è sicuro al 100% che le emetteranno prima una cartella esattoriale, per pagare questo valore di adeguamento…
– Sì, ma io non ho guadagnato questi soldi, devo pagare tasse su redditi presunti?
– Sì.
– Come sì, ma siamo pazzi?
– L’alternativa è di andare incontro a una verifica sul mancato pagamento della prossima cartella esattoriale che le verrà emessa in automatico e che a quanto capisco non vuole pagare…
– Mi faccia capire: io perdo reddito, visto che mi è andata davvero male l’anno scorso, e il Fisco presume che io abbia guadagnato di più, per cui mi chiede sulla base di calcoli matematici di aggiustare le tasse mancanti.. ?
– Esatto.
– E se non lo faccio ci sarà un accertamento…
– Esatto.
– Ok, facciamo che non dichiaro la congruità e mi preparo per un accertamento, tanto non ho nulla da nascondere, mica evado… lavoro con imprese, sono loro che mi chiedono di fatturare, non faccio mica l’idraulico…
– Sì certo, ma in fase di contenzioso potrebbe avere bisogno di un professionista che l’assiste…
– Mi sta dicendo che oltre a perdere tempo forse mi servirà un fiscalista o un avvocato che dovrò pagare per seguirmi?
– Sì.
– Ma sta roba è un incubo, in ogni caso ci perdo.
– Mi spiace, sono i parametri.
– Ma non è previsto che uno perda reddito…?
– Ripeto, sono parametri.. se perde reddito e non diminuisce le spese d’esercizio, sballa tutto.
– E che cosa avrei dovuto fare, fare meno telefonate? Non ho mica un bilancio da multinazionale, ho poco, un computer, un telefono, le spese del commercialista…
– Mi spiace, sono i parametri.
– Ok, e se pagassi l’adeguamento in quanto consiste?
– Circa 600 euro.
– Meno della parcella di un avvocato.
– Sì, poi lei è a credito con il fisco, potrebbe…
– Sì sono a credito, ma i crediti mica me li hanno regalati…
– Capisco, che cosa vuole fare? Ci vuole pensare…?
– Vorrei capire una cosa. Ma se mi adeguo non è che poi il Fisco presume che io voglia mettermi in regola per coprire qualche cosa di losco, redditi evasi o altro…?
– Tutto è possibile. Sicuramente non le faranno accertamenti legati alla congruità dei parametri.
– Ma chi c**o se li è inventati sti parametri? Se per un anno le cose vanno storte, mi trovo pure a dover pagare tasse su presunti redditi, col rischio di essere scambiato per reale evasore, e se non lo faccio dovrò perdere tempo con la burocrazia italiana e magari avere maggiori spese…?
– Sì, in effetti.. l’ideale è che lei diminuisca le spese, non che le aumenti..
[Fa pure la battuta, la commercialista]
– E dunque?
– E dunque me lo dica lei. I parametri servono al Fisco per fare supposizioni, poi deve scegliere lei se adeguarsi.
– E’ un Fisco ‘supponente’, mi sta dicendo…
– Io sono soltanto un’impiegata di questo studio, uso questo strumento per simulare la situazione reddituale e l’applicazione dei parametri, non riesco ad aiutarla diversamente, deve decidere lei.
– Pagare il pizzo allo Stato o andare a muso duro contro l’Agenzia delle Entrate, spendendo tempo e soldi. Bella alternativa.
– Allora, che cosa fa?
Una bella spalmata d’Irpef per tutti
Non sarò un genio della matematica, ma una cosa mi è chiara. Con la Riforma fiscale varata ieri, c’è una questione oscura ai più, chiarissima ai pochi. Alla domanda “Quanto pagheremo di tasse la prossima stagione?” possono rispondere con certezza soltanto i più ricchi. Le aliquote passeranno infatti al 20, 30 e 40%, ma non sono stati ancora fissati i nuovi margini dei redditi che cadono sotto ciascuna aliquota.
La maggior parte degli italiani dunque non sa se trarrà benefici o dovrà pagare di più. Al contrario, i più ricchi sanno già che pagheranno di meno, visto che l’aliquota massima sarà del 40%. E se la riforma è a costo zero, questo significa che il risparmio dei ceti più abbienti (tra i quali i nostri amatissimi politici, e politici-imprenditori) si spalmerà sul resto d’Italia.
Vivere di cultura: Jenkins, Jackpot e l’epoca della convergenza
Contraddicendo qualsiasi buon senso di tipo giornalistico ed eventologico – diceva Nietzsche che la vera attualità è “essere inattuali”, ovvero dire cose in anticipo per essere ficcanti nella critica del contemporaneo – mi permetto di essere inattuale di qualche ora :-) e riporto di seguito e per esteso quanto andrò raccontando domani nelle giornate romane di Vivere di cultura.
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Jenkins, Jackpot ed epoca della convergenza nell’orizzonte di un freelance
Il punto di vista che vorrei portare in questa discussione sulla convergenza dei media è quello di chi offre la propria opera all’industria culturale, ovvero gli autori, in particolare di quegli specifici autori che lavorano in maniera indipendente. Di recente, insieme a Sergio Bologna, abbiamo deciso di mettere a fuoco la condizione dei freelance in Italia, per capire quale sia l’orizzonte all’interno del quale si muove oggi il lavoro intellettuale autonomo. Partirei da qui, se va bene.
Quando presentammo il libro Vita da freelance in Università Bocconi a Milano, il giurista Adalberto Perulli raccontò di un ex pubblicitario che uscito dall’impresa, una volta passato al lavoro indipendente, ammise di non andare più al cinema. Non poteva più farlo come prima in orario di lavoro, pagato dall’azienda. In prima battuta interpretai l’aneddoto come una questione di costi e possibilità di dedurre queste spese senza un buon commercialista. In parte è vero, il consumo di cultura ha un suo peso. In realtà, però, la questione era ben più complessa, avendo a che fare con le modalità d’esercizio di un’attività. Nel mondo dei freelance – che forse con eccessivo entusiasmo considero un vero spazio primordiale di genesi del diverso
Azioni di lobby e (campagne video) per farsi pagare?
Soltanto in un paese come gli Usa i freelance potevano arrivare a fare video musicali come questo per sollecitare l’opinione pubblica durante il LobbyDay della Freelancers Union pensato dall’associazione più forte degli independent americani per farsi approvare The Freelancer Payment Protection Act. A parte la performace video (notare la striscia a scorrimento con i nomi dei freelance e dei pagamenti insoluti!), l’iniziativa politica complessiva – che cade sotto la sigla Unpaid Wage Action – è davvero grandiosa. Forza Freelancers Union! Se vuoi capirci qualcosa, segui anche l’hashtag #LobbyDay su Twitter.
F*ck You. Pay Me
La lezione di Mike Monteiro (Design director cofondatore di Mule Design Studio) ai CreativeMornings di San Francisco. Risponde al problema ricordato nel post di ieri e più in generale alla questione dei pagamenti dei creative jobs.
Tu che lavori per la gloria
Da queste parti lo scriviamo da tempo e pure abbiamo deciso di dedicare un capitolo di un libro alla questione, lavorare gratis è la rovina del freelancing. Su segnalazione della brava Roberta Carlini (che ha recentemente moderato la presentazione di Vita da freelance a Roma), segnalo a mia volta il post “Diciamo no al volontariato: perché non si deve mai lavorare gratis“, della giornalista scientifica Silvia Bencivelli che dice basta al malcostume di redazioni, università & Co. di cercare lavoro gratuito a ogni angolo di strada. Fulminante, stupendo questo passaggio:
Ci sono quelli che se si risparmiano un biglietto del treno è meglio: già che sei da queste parti, fai un salto da noi così facciamo riunione? Ci sono quelli che non ti pagano e ogni volta ti promettono che lo faranno, e tu continui a scrivere per loro perché in fondo è una buona vetrina. Quelli che ammettono candidamente da subito che non ti pagheranno mai, e tu apprezzi l’onestà. Quelli che ti contattano loro, però poi ti chiedono di fare una prova (una prova?!), ovviamente non pagata, quelli che ti chiamano a un colloquio ma non ti pagano il treno, quelli che ti scrivono chiedendoti consigli o facendoti proposte di lavoro così confuse non ti accorgi nemmeno che non si fa nessuna menzione al vile denaro. Quelli che hanno avuto un’idea, quelli che hanno finalmente capito che cosa fare da grandi, quelli che hanno organizzato il congresso della loro vita. E tutti ti vogliono coinvolgere perché ti stimano un sacco, ma non ti possono pagare.
Credo che sia arrivato il momento di dire no al volontariato. No. Per me, perché anche se è vero che il mio lavoro assomiglia a un hobby, e a volte si tratta di fare cose divertenti che farei anche per niente, non posso svendere quel che faccio. E’ il mio lavoro: me lo sono praticamente inventato da me ed è la cosa più preziosa che ho. Devo rispettarlo, accidenti. E poi no per tutti gli altri. Perché chi lavora gratis rovina il mercato. Se lavori gratis, chi ti fa lavorare sceglierà sempre te solo per questa ragione. E quindi tu non migliorerai e produrrai cose sempre mediocri, la tua professionalità e il lavoro che svolgi saranno svalutati, i tuoi colleghi non riusciranno a farsi pagare e la qualità del lavoro si abbasserà.
(Via Silviabencivelli.it)
Con curiosa corrispondenza di valutazione sull’argomento, nel post di Humanitech.it “Lavorare scrivendo. Marcel Mauss non donava i suoi saggi agli editori!” scrivemmo anche noi, da queste parti:
Il tempo non retribuito e lo scambio mezzi di produzione non propri contro le “opportunità di fare” aumentano il rischio di svalutazione delle proprie opere e più in generale il valore della propria attività. Aumentano i costi con cui andate a intaccare quella riserva acquisita di sapere che trasformate in opere. E poi che cosa avrete da dare? Da donare, al termine del lavoro gratuito?
La crescita e la diseguaglianza
Come ricorda Amartya Sen nel suo libro La diseguaglianza per rispondere correttamente alla domanda di giustizia sociale è sempre necessario circostanziare la risposte al quesito: “Eguali in che cosa?“. Non esiste per il Nobel per l’economia una vera analisi del problema senza ritagliare aree di indagine e circostanziare il modo di mettere in parallelo i valori. L’OECD ha provato a rispondere su un piano semplice, quello del reddito attraverso lo studio “Growing income inequality in OECD Coutries: what drives it and how can policy tackle it?” (.PDF in download).
Aumenta o diminuisce il divario in Italia? Mentre in Paesi fortemente industrializzati la distanza media che separa il lavoro salariato da chi sta nelle posizioni apicali arriva anche a moltiplicatori di 1:100 per l’Italia siamo modestamente a rapporti che separano il mondo operaio da quello dirigenziale con un fattore all’incirca equivalente a 1:4, ovvero cifre e stipendi che si aggirano intorno ai 22/24mila euro lordi contro contro i 104/106mila. Questo non lo dice OECD, ma qualsiasi analisi sulle medie retributive in Italia (relative al lavoro salariato, non al resto). OECD risponde, invece, alla domanda relativa al lungo periodo: le distanza negli incomes dei lavoratori si allarga o restringe? Beh, in Italia si allarga, come in molti Paesi, ma diversamente da quanto avviene per esempio in Francia, Belgio o Ungheria.
Le ragioni sono dovute ai salari, all’occupazione o alle rendite finanziarie? A tutti e tre i fattori. La redistribuzione della ricchezza generata dal lavoro è passata da un 10% di working poor a quel 10% che sta meglio, ovvero nella fascia alta delle retribuzioni. Il fattore della rendita finanziaria, invece, è quella che pare crescere esponenzialmente con maggiore rilevanza negli anni che vanno dal 1980 al 2000. Questo significa, in parole povere, che la finanziarizzazione dell’economia (Finazcapitalismo lo chiama L. Gallino) incide e inciderà sempre di più sulla determinazione di sperequazioni.
Quotare la scrittura, poche idee e confuse
Si scalda online la disputa intorno ai pagamenti ridicoli per la scrittura di post sui blog nostrani (nel caso specifico 1 euro a post). Luca Sofri e i commentatori del solito post-haiku sul blog di Mantellini pare non abbiano davvero idea di quali pesci pigliare per orientarsi in materia. Stupisce soprattutto il barcamenarsi tra un’idea strana di professionalismo da blogger, quotazione a cottimo, tariffari, giustezza del compenso, tempi di lavoro e (curioso) la totale assenza di valutazioni relative al diritto e alla descrizione onesta di che cosa sia un lavoro.
Se a qualcuno interessa, per converso, queste sono alcune analisi svolte in materia negli ultimi anni. Se proprio siete amanti del tema, c’è anche un mio capitolo dal titolo “Lavorare a che prezzo?” nel saggio Vita da freelance in uscita il 20 aprile per i tipi di Feltrinelli:
- Come farsi pagare. Modelli di costruzione del prezzo e cultura d’impresa nella relazione con il consulente (White Paper in formato .PDF);
- La paga del freelance. Quando l’impresa fa buy-back su premi di risultato
- Giornalisti freelance, si parla di soldi ed escono dalle statistiche
- I peones della jackpot economy
- Marcel Mauss non donava i suoi saggi agli editori!
- Il giusto prezzo, modelli per il lavoro autonomo
- Del lavorare gratis
- Preventivi per il lavoro autonomo
- Farsi pagare come freelance
- Costo orario e consulenza
Ogni tanto mi chiedo, leggendo simili dispute relative al nuovo mondo del lavoro, interpretato a piacere dai blogger italiani: bisogna per forza entrare nel ginepraio della dialettica e delle minchiate Web based a giustificazione di business da Jackpot Economy, scavalcando a pié pari la questione più generale del lavoro? Che cosa avrebbero detto i nostri padri, generazione precedente a quella dei knowledge worker, a chi avesse proposto un pagamento della giornata lavorativa, o della qualità di un’opera, basato sul numero di mattoni usati per tirare su un muro o sulle volte in cui avessero piegato la schiena alla catena di montaggio?