Era già abbastanza chiaro in quale stato agonizzante versasse la nostra politica del lavoro, ma con la pubblicazione della lettera che Trichet e Draghi hanno indirizzato al Governo il 5 di agosto ora risulta ancor più evidente di quale sacco fosse la farina contenuta nelle poche e confuse azioni di riforma contenute nella Manovra finanziaria in materia di lavoro. Chi non riconosce in queste parole l’abbozzo di riforma delle professioni (stralcio del DL 138/2011 in .PDF in download) o il contenuto dell’Articolo 8?
[…] a) È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala.
b) C’è anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L’accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione.
c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi.
Badate bene: il punto c) è stato introdotto in qualche modo nell’articolo 8 della manovra, ma soltanto nella prima parte (tralasciando quella che ho evidenziato in neretto).
Come già avvenuto con la Legge Biagi e tutte le successive revisioni del diritto del lavoro da parte dei governi di destra che si sono succeduti negli ultimi 15 anni si è messo mano soltanto alla pars destruens, abbandonando la strada della riforma degli ammortizzatori o, come propongono Pietro Ichino e altri da anni, di introdurre sistemi di compensazione in carico al datore di lavoro per assicurare (in senso letterale, non metaforico) la perdita del lavoro, magari sfruttando l’occasione per rivedere la paltea dei beneficiari delle politiche di sostegno al reddito.
E invece no, da queste parti si pensa soltanto a frantumare, lasciando la ricomposizione e le macerie al mercato. In altre parole Trichet ha voluto spingere con forza il modello europeo in casa nostra, ma il nostro coraggioso ministro e il Governo hanno pensato bene di stendere lo zerbino soltanto sui percorsi in uscita dal mercato, senza aprire nuove porte, immaginare nuove politiche di sostegno per il lavoratore nelle sue fasi di transizione.
Non è mancanza di tempo o di fantasia, questa ce l’ha eccome chi sa spiegare il contenuto di Legge con barzellette sulle suore. Dopo anni si può dire che sia una scelta consapevole e certamente infausta, che non sembra dare fastidio neppure al sindacato, votato oramai a manovrare crisi di chi gli ammortizzatori li ha. Queste omissioni le pagheranno negli anni a venire i giovani, le donne, i freelance, i soggetti più deboli e tutti i nuovi disoccupati.