Questa mattina mi si è bloccata la colazione sullo stomaco. Apro il giornale e leggo l’incipit di un articolo, su una testata nazionale:
Ora non è per essere leziosi, ma ci sono due minuscole sottigliezze che forse è il caso di approfondire. Se vi va. A me importa per due motivi: 1. cambiare l’Italia vuol dire anche eliminare sacche di ignoranza; 2. è ora di smetterla con modelli culturali e linguaggi di 20-30 anni fa legati al lavoro.
Primo: le politiche attive NON sono sistemi diretti “per trovare lavoro a chi è disoccupato”. Non sono neppure sinonimo di cassa integrazione, mobilità ecc. Quando il soggetto senza lavoro viene supportato con politiche che non lo mettono “in azione”, ma semplicemente lo assistono, si chiamano PASSIVE. E’ l’esatto contrario. Elargire sussidi, per esempio. Trovare lavoro ai disoccupati era prerogativa dell’ufficio di collocamanto. Oggi i Centri Pubblici per l’Impiego svolgono ancora attività di matching tra domanda e offerta, ma non si tratta di politiche attive.
Queste riguardano azioni di prevenzione, monitoraggio, formazione, assistenza, sperimentazioni legate a tirocini, attività di indirizzo, piani di riqualificazione, il raccordo tra scuola e lavoro, il supporto per l’integrazione sociale, il riallineamento, l’emersione e altre cento attività che puntano a una cosa soltanto: l’employability. Che significa? Semplicemente maggiore capacità di stare sul mercato per potersi reimpiegare. Può prendere la forma della formazione continua, ma anche semplicemente quella dell’assessment, ovvero la valutazione delle proprie competenze, per conoscere eventuali deficit da colmare per essere più spendibili rispetto alla domanda delle imprese.
Nell’ultimo decennio l’Unione Europea ha dato vita a “framework” dedicati al rilancio delle politiche attive. La finalità era appunto quella di spingere gli Stati verso politiche che superassero la semplice azione passiva, per mettere i soggetti in grado di ritrovare da soli la propria occupazione [si dice comunemente welfare to work], sulla base di un supporto attivo fatto di formazione o altro che aumentasse la propria employability. Su questo tema si sono spesi anni di dibattiti, soprattutto in sede europea, che oggi sembra mostrare anche pareri contrari sulla politica orientata soltanto verso l’occupabilità. Tutto questo è un pezzo (non l’unico, ovviamente) dei sistemi di flexecurity, un tema sul quale i sindacati [giusto per citare l’incipit dell’articolo] hanno sempre creato attrito.
Seconda cosa. Eliminare la componente progettuale dei territori, delle Regioni che operano nelle politiche attive con le Agenzie Regionali per il Lavoro o delle Province, che svolgono attività delocalizzate grazie ai Centri per l’Impiego, vuol dire non avere presente le dinamiche della politica di programmazione locale e nazionale. Astrarre il tema lavoro dalla sua referenziazione concreta. Anche i PON, per esempio, ovvero quei documenti che stabiliscono le linee guida delle politiche attive nazionali di anno in anno, sono sempre di più il frutto di una partecipazione dal basso, da parte cioè dei territori ed Enti che svologono azioni di intervento per la riqualificazione del mercato del lavoro. [A questo proposito suggerisco la lettura di “Per un welfare dalla parte dei cittadini” (Carrocci, 2007), per comprendere meglio che cosa significa “programmazione partecipata”].
I sindacati, lasciatemelo dire, non c’entrano un fico secco. O meglio, seguono a ruota. Le politiche si concordano e ovviamente le parti sociali hanno un ruolo, ma definire le “politiche attive” un termine “sindacalese” è confondere lo Stato Sociale con le relazioni industriali, giusto appunto l’errore fatale che ci ha portato negli ultimi anni a non fare decollare il Welfare State in Italia. Iniziamo a distinguere questi piani, poi è più semplice capire se quello francese, danese o altri modelli siano adeguati al nostro Paese.
Una nota a margine. Vi faccio un esempio di politiche attive. Un caso personale. Nel 2003 persi il lavoro. Partecipai a un bando per giornalisti disoccupati, lo vinsi ed entrai in un corso di formazione organizzato dal Ministero del Lavoro, dall’Ordine Nazionale dei Giornalisti e da Italia Lavoro. Scopo: formare sulla materia “Lavoro” i giornalisti senza occupazione, per migliorare la loro occupabilità. Tra i docenti ci fu anche Cesare Damiano, allora responsabile dei DS in materia di Lavoro. Nessuno mi trovò però un’occupazione dopo 8 mesi di formazione ed era giusto così. Vado ancora fiero di non essere entrato con spintarelle e uscito con lettere di raccomandazione. Dopo anni ho capito, però, che c’era un prezzo. La partita da giocare era appunto doppia. E’ vero infatti che le politiche attive trovano un freno in Italia nella realizzazione di azioni efficienti da parte del servizio pubblico (o privato che sia) o nella qualità dei servizi istituzionali, ma in primo luogo sono poco efficaci per: 1) una cultura diffusa di immobilismo; 2) il mancato riconoscimento delle competenze. In sintesi, la mobilità in Italia fa schifo. L’employability funziona là dove l’opportunità è legata anche al merito e questo è in grado di scalfire la rendita da posizione. Gli incompetenti, però, purtroppo, stanno al loro posto senza che alcuno dia loro una pedata nel culo. Si privilegiano poi raccomandazioni e protettorati di varia natura, specialmente politica. E per questo la qualità media del lavoratore italiano viene irrimediabilmente schiacciata verso il basso. Si guardi alla mobilità del lavoro in Danimarca prima di criticare le diverse politiche attive e passive.
Sorry I don’t speak sindacalese.. ma in milanese si dice “ofelè fa el to mestee’… Gli diamo la nomination per il JobTapiro?
ma chi è che scrive codeste corbellerie sui giornali “nazionali?
linguaggio vetusto e autentici svarioni, leggendo la tua analisi. Non sarebbe il caso, di dire qual è la testata e il giornalista?
Lo so che è antipatico, ma aiuterebbe a non prenderli troppo sul serio, quando si parla di un argomento così delicato come il lavoro. complimenti a te, Dario.
Elisa.S.
Dario, da vero gentiluomo qual è, oltrechè giornalista espertissimo della materia, motiva il suo sconcerto con una raffica di argomenti e tace il nome del collega e la testata. La grafica e il giorno d’uscita qualche indizio lo danno, però…
Pienamente solidali con te Dario.
:-)