Incontri di lavoro del terzo tipo

Mi sono perso la presentazione romana del libro di Sergio Bologna “Ceti medi senza futuro?“, ma per fortuna ho trovato questa bella sintesi sul blog SA-LA (Sapere Lavoro).

Come emerso in quella giornata, anch’io continuo a sostenere che la strada giusta per affrontare il tema della precarietà non sia tanto quello contrapporre chi ha un lavoro a tempo indeterminato a chi non ce l’ha (approccio politico-sindacale), ma puntare sulla tutela del lavoro dipendente e, con altrettanta convinzione, su quello autonomo [importante alternativa al primo]. I nuovi lavori, soprattutto quelli legati alla conoscenza, presuppongono intrisecamente la flessibilità e l’autonomia, una condizione che ha bisogno di uno Statuto nuovo e nuove forme di protezione sociale (welfare), completamante diverse da quelle che abbiamo conosciuto finora per il lavoro dipendente.

Bella la riflessione giuridica di partenza, riportata da Francesco Antonelli, che copio:

a) il lavoratore atipico non rientra nel TIPO di lavoro subordinato, previsto dal nostro Codice Civile; con il risultato di essere privato ex lege di ogni tipo di garanzia (come per esempio quelle previste nello Statuto del Lavoro);

b) i lavoratori atipici, nel contesto di uno stato assistenziale corporativo-conservatore incentrato proprio sul lavoro “tipico”, sono esclusi anche dalla cittadinanza sociale [tradotto: tutele del Welfare State];

c) l’onere della formazione del lavoratore, che in una società della conoscenza deve essere continua, ricade, nel caso dell’atipico, integralmente sulle sue spalle, senza che né lo Stato né le organizzazioni operanti sul mercato, se ne facciano carico (pur pretendendo un aggiornamento continuo).

Queste nuove tutele servirebbero a “mettersi al passo con il resto d’Europa, dove sono costruite nel quadro dello Stato sociale per garantire il soggetto lavorativo nel suo percorso, piuttosto che nella sua appartenenza ad una specifica organizzazione“. [Vi siete mai chiesti chi frappone maggiori ostacoli alla discussione sul modello della flexecurity europea?] Rimarcare continuamente la distanza che separa chi ha il posto fisso dagli altri è come riproporre lo schema della Coscienza Infelice di hegeliana memoria, con annesso il simpatico paradosso – trattato oggi come letteratura – che anche i precari possono essere felici o chi ha un lavoro a tempo indeterminato essere molto molto infelice. E invece la questione è da ribaltare. Come ricorda Antonelli (e sono certo siano parole di S. Bologna):

“Il lavoro immateriale dei lavoratori della conoscenza non è al servizio della flessibilità e del settorialismo capitalistico, ma è questo ultimo al servizio dello sviluppo dei primi, delle soggettività e quindi dello sviluppo sociale complessivo della collettività.”

Per semplificare e rilanciare: non è unicamente il sistema d’impresa e i valori dei suoi difensori storici, i sindacati, a rappresentare il vero mercato del lavoro, e dunque l’ambiente di realizzazione delle potenzialità di un individuo come soggetto sociale, ma il sistema sociale in sé, libero da privilegi associati all’appartenenza a un’organizzazione. Assumere come totem il posto fisso produce frammentazioni sul contenuto del lavoro, conseguenti sottocategorie di tutele a seconda della relazione basata sul tempo e tutti i corrispondenti aneliti e le insofferenze per le disparità.

Ovvio che lo status quo deve essere affrontato comunque come tale, oggi. Ma il lavoro autonomo di seconda generazione sta mettendo a nudo una grande verità e facendo emergere una nuova necessità, più concreta di qualsiasi battaglia di piazza, rivolta genericamante “contro il precariato”, o della perseveranza nei confronti di un riformismo sempre inattuale: è l’individuo in sé che va tutelato come soggetto sociale. Poi se farà l’imprenditore, il magut, il libero professionista, il pubblicitario o l’impiegato, che cosa importa?

Ultima modifica: 2007-10-25T10:53:15+02:00 Autore: Dario Banfi

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