A distanza di due mesi ho ripescato in fondo a una cartellina del PC il testo che scrissi per la prima presentazione del libro Vita da freelance. I lavoratori della conoscenza e il loro futuro (Feltrinelli, 2011), scritto insieme a Sergio Bologna, che facemmo insieme, con la moderazione della brava Roberta Carlini, presso la Libreria Feltrinelli di Galleria delle Colonne a Roma il 28 aprile 2011. Spiaceva morisse là nell’angolo buio di una cartella del computer e ve la propongo, se vi interessa.
Quale exit strategy per i freelance?
Ogni giorno compaiono su Twitter una media di 3/4 twit al minuto, messaggini di 140 caratteri, etichettati con la voce #freelance o #freelancing. È soltanto la punta di un iceberg e di un mondo del lavoro (e dei modi di raccontarlo) che stanno cambiando. I lavoratori indipendenti non hanno atteso in questi anni chi li rappresentasse ufficialmente per uscire allo scoperto, usando la rete Internet, per incontrarsi e raccontarsi come lavoratori.
In Italia accade un po’ meno che altrove e la domanda che mi faccio spesso è che cosa stiamo aspettando a buttarci nella mischia, per scompaginare le regole della rappresentanza.
L’idea di scrivere un libro sul mondo dei freelance è un’avventura in cui mi ha trascinato Sergio (io pensavo già di fare soltanto il papà freelance e invece no) e nasce da qui. Dall’urgenza di raccontare dall’interno che cosa accade e con quali culture dobbiamo confrontarci, cercando di capire chi sono in nostri veri interlocutori. Nasce dalla necessità di squadernare e togliere la rilegatura a un libro che abbiamo letto già molte volte e che non ci andava più bene perché filtrato fin troppo efficacemente dal sindacalismo, dalla politica o dall’informazione.
Io non sono un ricercatore sociale, ci sono dentro fino al collo. Sono un freelance. Sono cresciuto culturalmente con il decostruzionismo di Derrida, i racconti di Sennett sulla corrosione del carattere e l’emergere dei network sociali, respirando protocollo Http e cultura hacker, macinando tutto il peggio che ruota intorno alla comunicazione (online soprattutto) e ne ho fatto un lavoro. Bella roba, direte. Ho capito, però, come può nascere un mestiere da un mix ingovernabile di passioni – giornalismo, tecnologie, diritto del lavoro, economia – e che è proprio il lavoro a rimettere insieme i pezzi.
Sono il sapere e il modo di costruire il “carattere” in una società liquida, gli impegni che prendi in uno spazio chiamato economia della conoscenza, a tenerti a galla. Anche se sei solo, un mercenario, uno senza tetto. La vita da freelance è in primo luogo questo: stare di fronte a se stessi senza troppe paure o vergogne, per ciò che sai e sai fare. Poi c’è il resto. C’è la società, appunto. Questo libro, in verità, è più sbilanciato sul secondo fronte che sul personalismo, sul virtuosismo o sulla parcellizzazione, forse perché per una fenomenologia c’è sempre tempo, anzi si arricchisce col tempo, e forse perché il self-managment è soltanto una parte del tutto, mentre per parlare di coalizioni e di nuovi modi di stare insieme, per capire che cosa ci unisce come freelance, siamo in ritardo. E serve mettere insieme generazioni: in questo devo ringraziare davvero Sergio per la fiducia.
Quali ritardi? Il professionalismo per esempio – ovvero l’idea idea secondo la quale siano un titolo, una carica, una qualifica a regolare le tue relazioni più di ciò che conosci e sai fare, e diventino il principio di governo del tuo valore – è una strada che la mia generazione ha rigettato, per necessità o forse, visti gli interessi in gioco e le rendite da posizione, è questa cultura che ci ha respinto. Ci sono poi i diritti di cittadinanza, le protezioni sociali, il sostegno allo sviluppo, un fisco assurdo.
Studiosi come Aldo Bonomi e la stessa CGIL – per citare soltanto due ricerche presentate martedì sul Corriere e ieri dall’IRES – sono d’accordo nel raccogliere l’impressione dei freelance secondo la quale “pur rilevando una reale autonomia nello svolgimento della prestazione, affrontano la propria attività professionale accettando le condizioni di mercato in cui operano ma con pochi strumenti di governo, protezione sociale […] soffrendo la mancanza di strumenti legislativi, professionali o contrattuali aggiornati”. E chi glieli deve dare? Chi si fa portavoce collettivo?
Ma è mai possibile che un freelance non possa scaricare i costi generali di aggiornamento e formazione individuale mentre un’impresa può detrarre il leasing sulle automobili aziendali e gli amministratori delegati italiani abbiano in media quattro auto ciascuno? Non è un ritorno al pauperismo come valore, ma la constatazione che stiamo sbagliando “benzina” per l’economia. Chi deve alzare la voce su simili contraddizioni?
Io credo sia arrivato il momento di alimentare il conflitto su questi lati oscuri, riportando il giusto peso sul valore della cittadinanza e del lavoro e luce su questioni rimaste nell’angolo del diritto, perché questa separazione è anche sperequazione. Apartheid lo ha definito qualcuno. Il nostro stato sociale è indecoroso nei confronti dei lavoratori indipendenti, così come trovo indecente la diffusa cultura italiana sul fatto che il lavoro intellettuale non debba essere remunerato con giuste misure.
Qualche giorno fa un’agenzia pubblicitaria mi ha contattato per trovare alcuni nomi a prodotti assicurativi. Un classico lavoro di “naming”, per copywriter. Modalità di lavoro: io mando le proposte e un briefing, una spiegazione. Se il cliente dell’agenzia sceglie la mia proposta vengo pagato. Altrimenti no. Crowdsourcing si chiama. Fare coalizione significa anche rigettare simili proposte tutti insieme, difendere i luoghi di condivisione del sapere e le parole, proteggere ciò che è bene Comune.
Le questioni irrisolte e poste dal mondo freelance superano certamente i limiti dell’individuo perché riguardano tutti, se non addirittura il lavoro, più in generale. La reale mobilità è quando non temi di perdere diritti scegliendo la libertà e questa cosa non è una faccenda soltanto dei freelance, teste calde che rifiutano di considerarsi precari.
Vi faccio un esempio e chiudo per tornare a Twitter. Fare coalizione tra freelance non significa soltanto immaginare o sperimentare scenari diversi di protezione dal rischio, per esempio legati al mutualismo tra comunità di interessi, o rivendicare il diritto sacrosanto a essere pagati sempre e comunque, come la Freelancers Union sta cercando di ottenere con l’approvazione bipartisan di una legge nello Stato di New York. Sta anche difendere in ogni contesto il diritto a rivendicare diritti. E’ capitato di recente che proprio la coalizione creata da Sara Horowitz abbia deciso di schierarsi con gli impiegati del public sector dello Stato del Wisconsin ai quali i Tea Party hanno imposto la cancellazione della negoziazione collettiva come principio di base. L’adesione via Twitter all’occupazione pacifica del Senato ha dimostrato che per i freelance americani esistono condizioni e identità del lavoro che superano la semplice autonomia.
In Italia, per essere concreti, a dimostrazione dello stato di impreparazione politica e culturale in materia di dignità del lavoro e di comprensione del lavoro autonomo siamo a questi livelli: Maurizio Castro (Pdl) durante l’audizione in Senato italiano di pochi giorni fa dei giornalisti freelance ha chiesto agli intervenuti se si potessero immaginare, come exit strategy dall’attuale condizione di degrado, “percorsi sul tipo di quelli già felicemente sperimentati per il personale dei call-center”. Ecco, qui noi non ci vogliamo finire, in questa imbecillità nel porre le soluzioni. Abbiamo scritto di nuove coalizioni anche per questo motivo, per spazzare via i dubbi e aprire se possibile nuove strade.