WebApp Storm pubblica una raccolta dei 50 attrezzi più utili ai “liberi professionisti digitali“, come li chiamo io. Presi tutti insieme sono inutili, ma a piccole dosi c’è qualcosa che veramente funziona. Anche soltanto in via sperimentale perché non provare sistemi di time tracking o applicazioni to outsource your memory?
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Digital working tax e i commons del lavoro

Il sottotitolo di questo libro recita “Idee plurali per uscire dall’angolo“. E ben si addice ai temi affrontati, che per quanto riguarda il lavoro, vedono contributi di Tito Boeri sul Merito o il bel saggio di Sergio Bevilacqua sul Popolo delle partite IVA, qui liberamente scaricabile. in formato .PDF.
Molto interessanti sulle questioni tecnologiche sono anche i contributi di E. “Gomma” Guarneri sul tema dei commons e quello di Raf Valvola Scelsi sulle questioni della gratuità in Rete.
Ed è dal suo saggio, diffuso con licenza CC Not Commercial 2.5, che riporto un brano piuttosto interessante:
D’altro canto il software è necessario nel lavoro. Per lavorare, infatti, bisogna conoscere gli strumenti informatici. Pagare per imparare a utilizzarli è una vera e propria tassa di ingresso sul mercato del lavoro. è come se si pagasse una percentuale al governo britannico ogni qual volta si imparasse l’inglese. In entrambi i casi siamo di fronte a precondizioni lavorative imprescindibili. Ecco perché la definizione di strumenti e di software “free” oggettivamente contribuisce a democratizzare il mercato del lavoro.
Se ci pensate questa “tassa” è tanto più salata quanto più si deve pagare in proprio. I costi di formazione non sono interamente deducibili da un freelance, così come l’acquisto di software si ammortizza in quattro anni, quando oramai è già passato il momento di acquistarne altro.
Se è vero che oramai tra tecnologia e produzione intellettuale autonoma esiste un vincolo strettissimo, la questione è aperta e dovrà in futuro trovare una soluzione concreta da parte del legislatore, da un lato, che dovrebbe rendere sostenibile questa “tassa” (i metodi sono centomila, dagli incentivi per l’autoimpiego, alla detassazione della formazione ecc.) e, dall’altro lato, da parte dei lavoratori indipendenti, che dovranno fare fronte comune per condividere soluzioni aperte.
Un’idea è quella di creare kit di base con i tool gratuiti per la produttività individuale, un po’ come in Rete già si è sviluppata la comunità open per lo sviluppo di O.S. e in questi anni dei CMS e relativi framework.
Credo sia arrivato il tempo di affrontare anche “i commons del lavoro digitale”.
Storie di digital workstyle
Ogni tanto mi scrive qualcuno in relazione al libro Liberi Professionisti Digitali (Apogeo, 2006) per raccontarmi la sua esperienza e le difficoltà che incontra. Vi riporto soltanto un paio di esempi perché a mio avviso sono incoraggianti per chi cerca strade alternative o vuole migliorare la propria attività quando per esempio accade di sentirsi abbandonati dalla stessa categoria professionale a cui si appartiene.
I caso: un avvocato
“Sono avvocato, lavoro in proprio da poco più di un paio d’anni, con pochi mezzi (computer, cellulare, agenda, oltre alla testa, al cuore, inteso come passione, e alle gambe per salire e scendere dalle scale del Tribunale). È la prima volta che leggo suggerimenti concreti, messaggi incoraggianti, parole di buon senso. Una boccata d’aria buona in mezzo a tanto fumo (e niente arrosto) che ci viene quotidianamente propinato, ahimé anche da chi ci rappresenta ai vertici del nostro Ordine professionale e che, a ben vedere, si sciacqua la bocca con la parola “deontologia” ma assai poco fa per darci strumenti per lavorare.”
[Lettera firmata]
II caso: un broker finanziario, passato dal lavoro dipendente a quello autonomo
“Questa avventura è iniziata dopo tanti studi e preparativi nel tempo che mi rimaneva a disposizione. Lavoro da casa quando voglio con i miei quattro computer e nove monitor collegati via telefonica in banda larga e satellitare con dei fornitori di dati in real time. Non le nascondo la soddisfazione per questo tipo di attività che al momento sembra funzionare. Inoltre, non sono legato da orari fissi o periodi limitati di ferie. Per la prima volta, assaporo cosa vuol dire lavorare da soli senza capi che ti controllano e senza colleghi di ufficio che ti stressano… In certe giornate c’è veramente la possibilità di guadagnare con un solo contratto quanto guadagnavo in un mese. Da questa esperienza mi è nata una nuova idea su cui lavorare in parallelo nei tempi morti il sabato: aprire una Partita Iva per vendere un 90% (l’altro 10% è un mio segreto) della mia metodologia in corsi e seminari. Mi sto adoperando per costruire un mio sito Web, pubblicità, distribuzione di depliant, presentazione multimediale dei corsi, commercialista e tutto il resto che serve ad avviare un’attività. Le ho scritto per confermare come può cambiare la propria vita grazie alle nuove tecnologie se ben usate.”
[Lettera firmata]
Knowledge worker e nomadismo
Ancora un bel pezzo di Roberto Venturini dal titolo “Ufficio virtuale, problemi reali” su Apogeonline che affronta a viso aperto la questione del lavoro destrutturato e di quelli che io chiamo i lavoratori “della conoscenza” e che lui definisce anche “senza fissa dimora”. Un gran bell’articolo a mio giudizio, che si allinea perfettamente a quelle che sono anche le mie osservazioni messe a fuoco negli ultimi anni e che mi hanno portato a produrre un testo come Liberi Professionisti Digitali, pensato esclusivamente per chi non ha un ufficio reale, non ha un contratto fisso (e un solo cliente) di lavoro, ma un potenziale enorme in termini di know-how e capacità di costruirsi una posizione autonoma e supportata dagli strumenti tecnologici.