La tassa generazionale

E adesso chi ce lo mette il TFR per gli atipici?

Dopo le dichiarazioni [una vera sassata contro il vetro, direi] del ministro Cesare Damiano sulla previdenza integrativa di chi ha un lavoro discontinuo e non ha un salario differito, è il momento di chiarire qualcosa. Questo ultimo passaggio del dibattito pubblico ha messo allo scoperto la vera grande questione che oggi nessuno ha voglia di affrontare. Neppure il Governo.

Pensione a due stelle

Da quando è iniziato il can-can pensioni (per due documenti tecnici aggiornati sullo scenario italiano si vedano Il Rapporto Istat 2006 sulle pensioni e lo Studio del Nucleo di Valutazione della Spesa Previdenziale 2006) c’è un lato oscuro della vicenda che viene discusso soltanto a margine.

La questione non è semplicemente di capire perché sia necessario sussumere il discorso del TFR sotto quello delle pensioni integrative (una lunga e articolata spiegazione di Luciano Vasapollo parla addirittura di Scippo di ammortizzatori sociali!!!) o se lo scalone si può fare diventare uno “scivolo” [problema che onestamante mi pare futile di fronte al macigno che sta a fianco di questo sassolino]. La vera domanda è: “Perché diavolo si renderà necessaria una pensione integrativa?”.

I nostri padri non ce l’hanno.. e allora come mai un sistema collaudato sta andando a scatafascio?

Nei miei dieci anni di lavoro ho pagato contributi che sono stati riversati nelle tasche della generazione che mi precede. Perché ora dovrei continuare a versare questa parte e contemporaneamente inventarmi un nuova forma di rendita che integrerà quella parte di pensione che mia figlia non sarà in grado di pagarmi? Chi me lo vuole spiegare davvero?

Io oggi trentacinquenne sto per pagare una “tassa generazionale” che in precedenza e forse in futuro nessuno pagherà. Uno scotto pesante, silenzioso. Sindacati, Governo e giornali stanno tacendo un tema che mi pare essere il cuore del problema, ovvero lo scavalcamanto del patto tra generazioni.

Ripartire non vuol dire partire due volte

Finora il meccanismo previdenziale è stato basato sulla logica della ripartizione e che a sua volta ha presupposto una solidarietà intergenerazionale. Domani non sarà più così. Non si chiederà più di essere solidali tra generazioni, ma di raggranellare un capitale privato, sottraendo ai meccanismi della ripartizione quote significative (e sempre più consistenti, io credo con il passare del tempo) per riparare a quello che mancherà sul piatto pubblico e che si è usato finora come posta in gioco da dividere a fine corsa lavorativa. In altre parole: in futuro ci saranno pensioni più basse e la differenza [rispetto a quei valori con cui sono stati trattati i nostri padri finora] ognuno se la dovrà accumulare come meglio crede.

Per essere ancora più chiari: il mio lavoro oggi contribuisce a creare una ricchezza che viene trasferita finanziariamente alla generazione che mi precede, giorno dopo giorno. Il sistema ha iniziato però a fare acqua. Da un punto di vista teorico il gioco regge infatti se sussiste un’equivalenza attuariale tra pensioni da pagare e contributi incassati, ovvero se ogni lavoratore ha cioè un solo “padre” a cui pagare la pensione e non a 1,00001.. Ogni altra ipotesi (semplificando, ovviamente) rende il sistema una macchina che genera disavanzo.

Per mettere una toppa alla deriva finanziaria [tralasciando l’ipotesi che sia compito dello Stato sopperire alla spesa pensionistica di disavanzo], la riforma Dini ha scelto la strada del “tanto versato – tanto restituito“. Il sistema cosiddetto retributivo (= pensione parametrata all’ultimo reddito) diventerà presto “contributivo” (= pensione parametrata ai contributi versati). Con questo modello econometrico la pensione equivarrà a quanto versato negli anni di lavoro, rivalutato secondo un determinato coefficiente di conversione che comprende l’andamento dell’inflazione e del PIL nazionale negli ultimi cinque anni.

Chi verserà maggiori quote, prenderà una pensione più elevata.

Giustissimo. Se non fosse che oggi si applicano sempre meno contratti che hanno una forte componente contributiva o contratti con diverse aliquote e di conseguenza si ingenera alla lunghissima distanza una futura classe di diseguali.. Sperequati virtuali che contribuiscono però oggi [e gli anni passati] a pagare le pensioni agli attuali fuoriusciti dal mercato, ovvero pensioni costruite con metodi diversi da quelli con cui saranno definite le nostre pensioni future.

Contributivo, capitalizzazione e le mille revisioni

Il metodo della ripartizione tra generazioni si dice non essere più sostenibile a causa dell’invecchiamento della popolazione attiva. In pochi mettono a fuoco che questo ha ache fare anche con il calo della natalità e che questa forse forse deriva anche da una società sempre più dura per le giovani generazioni. Si passerà così al sistema basato sulla capitalizzazione e addio patto tra generazioni.

Nota bene: la questione “invecchiamento” è uno dei valori che contribuisce alla determinazione del parametro di rivalutazione dei contributi versati. Ma proseguiamo nell’iter storico. Arriva Maroni. Visto che nel passaggio della doppia logica [pensione retributiva vs contributiva // modello della ripartizione vs capitalizzazione] i conti ancora non tornavano e che uno dei problemi è proprio l’età del lavoratore che va in pensione, la Riforma Maroni ha innalzato questo tetto creando anche incentivi alla permanenza al lavoro. In altri termini = più lavoratori, meno pensionati; più contributi, meno uscite pensionistiche. Questo sulla carta, fino a ieri.

Dal primo gennaio è scattato l’obbligo di riversare il TFR da qualche parte e le carte sono state messe allo scoperto, mostrando prima per gli statali oggi per gli atipici un reale problema di sostenibilità sociale del modello.

In questo contesto le posizoni pro e contro tecnicismi interni alle riforme Dini e Maroni si sprecano. C’è quella dei sindacati che sostengono, non senza colpevole miopia, che i coefficienti di trasformazione delle pensioni non si toccano [Cfr. Angeletti ed Epifani] anche se dovessimo diventare tutti Matusalemme e facendo finta di non vedere che sono già fin da ora fonte di disparità sociale [Cfr. anche qui]. Per l’INPS i coefficienti vanno aggiornati. Secondo il PRC invece è l’età pensionabile il nodo: non si deve alzare in maniera uguale per tutti. La maggioranza degli economisti italiani sostiene invece che senza adeguazione dei coefficienti di trasformazione delle pensioni al reale invecchiamento della popolazione italiana [tra l’altro prevista per legge] si tratterebbe di una riforma che sposta il problema a seconda dei rapporti di forza e non con una logica di equità generale (e matematica, aggiungo io). Se al contrario questo parametro fosse automatico, nessuno avrebbe da obiettare sui privilegi di oggi e le ingiustizie di domani. Giusto. Aspettiamo qualche anno e poi noi gionalisti registreremo gli insulti dei primi pensionati che toccheranno con mano l’efficacia del sistema contributivo..

TFR o non TFR?

La vera questione resta infatti la forte sperequazione tra le pensioni che finora sono entrare in tasca ai nostri padri e quelle di domani che passeranno a circa il 50% dell’ultimo reddito percepito (contro il 70-80% di oggi).

Mio figlio “mi pagherà” in maniera diversa rispetto a quanto io sto facendo con mio padre. Il gap tra generazioni potrà essere colmato soltanto con uno sforzo che punta verso la capitalizzazione di quote risparmiate dal lavoratore privato.

Chi lo assisterà? Qualcuno che sappia rivalutare il denaro meglio di quanto sia capace lo Stato. Banche, assicurazioni e così via. Oppure ancora lo Stato [per esempio, il PRC vuole inventare un nuovo Fondo previdenziale integrativo presso INPS che renda moltissimo (?!)… ]. E come invogliare i lavoratori a pensare che questo sia un percorso (decorso) naturale? Facendo riversare obbligatoriamente il TFR in altre casse rispetto a quelle nelle quali eravamo abituati a tenerlo e dicendo che il salario differito diventa “pensione in potenza”.

Già, ma chi il TFR non ce l’ha?

E qui viene il nodo al pettine che il ministro giustamante intende risolvere mettendo anche gli atipici (che ricevono e riversano all’INPS contributi ineguali rispetto ai lavoratori dipendenti) in condizione di avere tale opportunità. Se per rimettere in linea con il costo della vita le future pensioni si dovranno raggranellare ognuno per conto suo soldini sotto il materasso di qualche banca, quali soldini metterà sotto il materasso, anche del suo letto, chi già percepisce redditi bassi? È noto che chi ha contratti con aliquote contributive basse percepisce anche redditi bassi. Ciò significa che la differenza di oggi diventerà abisso domani. La riforma del TFR è perciò incompleta. Non risolve il problema che sta a monte della riforma contributiva, ma la nasconde sotto altra forma e per giunta indirizzando la soluzione soltanto verso i lavoratori con TFR.. Incentiva a passare alla previdenza privata senza dire che questa sia necessaria per tutti.

Tre passi in avanti

Come dirimere qualche nodo della matassa? Intanto prendendo posizione ferma almeno su tre punti. Primo: occorre smetterla di discutere di pensioni senza un’adeguata rappresentanza di persone che ne subiscono le conseguenze più gravi, ovvero i giovani. Secondo: è opportuno rendere il costo del lavoro uguale per tutti, almeno sotto l’aspetto contributivo. Terzo: i lavoratori anziani (e i sindacati che li supportano) dovrebbero seriamente chiedersi su chi pesa oggi il costo delle loro pensioni. Personalmente sono per l’introduzione di disincentivi pesanti per chi si disinteressa a questa tassa invisibile sulle giovani generazioni e alzerei tranquillamente l’età pensionabile [concordo con l’analisi di Franco Reviglio, qui riportata].

Il Governo dice “No all’innalzamento“, ma se tutto nasce dal deficit dei conti pubblici, non vedo perché ci deve essere chi alloggia meglio arrivando prima. [Una posizione simile su questi tre punti è quella di Tito Boeri che si può leggere qui e qui]. In realtà ci sarebbe anche un quarto elemento, ma essendo in Italia rinuncio soltanto a pensarci: la tassazione dei redditi da posizione pensionistica fuori norma. Baby pensionati, falsi invalidi, chi ha beneficiato di mobilità lunghissime per arrivare ai prepensionamenti e via discorrendo, comprese le pensioni di chi magari ha nascosto capitali non tassati da qualche parte..

E in ultimo una questione di equità sociale: la determinazione di ammortizzatori sociali che favoriscano chi oggi è costretto a discontinuità lavorative. Serve un meccanismo nuovo per la contribuzione figurativa minima che non li ponga in futuro sotto la soglia di povertà. Usando il linguaggio del tempo presente occorre un sistema che renda la flessibilità socialmente sostenibile.

Oggi come ieri

Romano Prodi ha mandato una lettera a L’Espesso sul tema dice:

Vogliamo applicare criteri di crescita ed equità al problema della riforma dello stato sociale di fronte al quale ho due obiettivi cui non posso e non voglio rinunciare: garantire una pensione decente ai giovani che entrano ora nel mondo del lavoro, e aumentare le pensioni più basse in un Paese in cui due milioni di persone ricevono meno di 400 euro al mese. Il trattamento dello scalone, la correzione dei coefficienti, gli incentivi alla permanenza nel mercato del lavoro, il pensionamanto graduale e gli ammortizzatori sociali e tutti i capitoli che compongono lo stato sociale non possono che essere armonizzati agli obiettivi di crescita ed equità che ci debbono continuamente fare da guida.

Ok, bene. Ha elencato i problemi. E come fare? Prodi risponde: mettendo insieme Enti previdenziali per risparmiare e innovando la PA, senza tralasciare di sentire i sindacati.

Il cielo ci aiuti.

Ultima modifica: 2007-01-21T20:36:41+01:00 Autore: Dario Banfi

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