Ieri in due incontri diversi di lavoro ho avuto notizia di due fenomeni interessanti che riguardano i dirigenti italiani. Per certi versi non c’entrano nulla l’uno con l’altro, ma mi ha incuriosito la concomitanza delle discussioni che vertevano entrambe sul fatto che l’Estero può diventare un terreno di conquista per innestare simpatiche “camuffe” da parte dei dirigenti.
Il primo fenomeno è questo: oggi, data l’immobilità del mercato e della conseguente valorizzazione economica e retributiva dei dirigenti, che devono fare percorsi lunghi per vedere crescere la propria busta paga, una delle vie d’uscita per fare cassa sembra essere quella di guadagnare titoli [in senso aziendale] all’estero, guidando anche divisioni o segmenti di business che stanno altrove. Se questo poi avvenga in realtà poco conta, ma facilita lo spostamento dei costi, messi fuori cassa italiana e registrati direttamante presso filiali estere (tipicamente sui mercati dell’Est Europeo). Come chiamarla, “delocalizzazione della busta paga”?
Il secondo fenomeno è quello del recruiting dei dirigenti. Un dirigente in fase di uscita da una società in crisi conclamata mi ha raccontato che muovendosi giustamante in anticipo nel carcare una nuova occupazione ha avuto parecchie diffociltà a intercettare selezionatori ed head hunter italiani, ma non appena è andato sui siti Internet di sedi estere delle stesse società di selezione e proponendosi per posizioni in Italia è stato subito chiamato. Questo, spiegava il dirigente, perché a suo avviso la cultura della mobilità dovuta a crisi aziendali o anche soltanto della discontinuità lavorativa è più sviluppata all’estero e crea minore difficoltà d’immagine nel trovare lavoro.
Hai citato due fenomeni davvero interessanti: il primo, forse oscuro a molti, mi piace come ironica definizione ed è forse lo specchio della situazione del mercato attuale. Il secondo invece può esser forse più evidente: il “posto fisso” è al primo posto nei sogni degli italiani.