A margine di un’intervista a La Repubblica (.pdf) di oggi in cui Pietro Ichino ribadisce la stessa tesi di Visco sulla detassazione degli straordinari accennata nel post precedente (ovvero che per avvantaggiare le fasce più deboli del lavoro dipendente sia meglio aumentare le detrazioni – poiché crea minori sperequazioni – che abbassare l’aliquota Irpef), il giuslavorista butta lì queste paroline..
“Infine ci sono i paria… cioè tutti i collaboratori continuativi autonomi, che oltre all’Irpef pagano anche l’Irap, e ora, se non sono iscritti a un Albo professionale, pagano anche il contributo previdenziale all’INPS del 24,7%. A loro non pensa mai nessuno; eppure sono un pezzo importante del nostro sistema produttivo“.
Sempre sul tema dei lavoratori autonomi si era espresso Michele Tiraboschi qualche giorno prima, ma con tutt’altra finalità (difendere la Biagi) sulla base di alcuni dati emersi dalla Gestione Separata dell’Inps sui quali ha costruito un ampio servizio Il Sole 24 Ore che lascio in download qui (.pdf) a chi interessa.
Ciao Claudio, bentornato. Io invece ho apprezzato che Ichino usasse la dizione “collaboratori continuativi autonomi” perché ne sottolinea la natura giuridica. Che nei fatti sia poi diverso ne convengo. Credo che oggi si debba insistere su questo punto, sull’autonomia, che – secondo me – deve essere pretesa in primo luogo dai lavoratori co.co.pro ecc. che non devono accettare orari e tutto ciò che snatura la relazione di lavoro autonomo.. So che è un discorso difficile [il leone mangia la gazzella], ma io credo molto nella lotta individuale (e oggi anche per via di associazioni), nell’agilità della gazzella, per non farsi mettere i piedi in testa da chi ti offre un contratto o spesso neppure quello se hai partita IVA e poi ti tratta come subordinato.. o per difendere diritti negati (vedi riforma pensioni ecc.).
In questo blog, qualche consiglio (modesto) ogni tanto cerco di buttarlo lì.. so che non è cosa semplice, ma io ci credo, credo nella capacità di affermare una posizione reale di autonomia. Senza questa convinzione nella possibilità che si possano determinare, comunicare, trasferire ecc.. buone pratiche di lavoro autonomo, sarei costretto soltanto accettare la deregolamentazione del mercato come scivolamento verso una negazione di diritti ai lavoratori subordinati. Io non ci sto. Sono convinto che la vera flessibilità sia una sana determinazione di posizioni forti sul mercato. E visto che ci sono cascato in mezzo, e non posso tornare indietro (anch’io sono come dici un ex giovane..) che si porti la logica alle sue estreme conseguenze, partendo in primis dal Codice Civile, non dalla cattiva interpretazione [e ahimé dalla prassi] dei co.co.pro. come semplice manodopera a basso costo, facilmente licenziabile..
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Sulla frase di Ichino, non credo volesse dire che si dovevano includere i co.co.pro nella questione straordinari, ma semplicemente che nella definizione di misure per aumentare i redditi più bassi si tralasciano categorie intere per le quali forse era meglio puntare su altre soluzioni (detrazioni, invece che sugli incentivi detassati) o [sparo a caso..] su politiche per la definizione di premi (detassati?) validi anche per la PA o gli autonomi..
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P.S. Sul fatto che esistano diversità rispetto alla mia posizione lo so – mi occupo di lavoro da anni – ma in questo blog amo parlare in prima persona ed espormi, non me ne fare una colpa, vorrei soltanto che dopo tutta la fatica che ho fatto in questi anni x ritagliarmi una posizione di questo tipo fosse soltanto meno dura per gli altri, magari x chi è costretto a beccarsi un finto co.co.pro come se fosse un regalo da parte di qualcuno…
Bizzarre le considerazioni del sen. Ichino, insigne giuslavorista, che parlando con l’intervistatore di lavoro straordinario tira in ballo i collaboratori continuativi definendoli “autonomi”. Se fossero davvero autonomi il concetto di “lavoro straordinario” non avrebbe alcun senso (il lavoratore autonomo non ha un “orario di lavoro”). Il problema è che i co.co.co sono invece “parasubordinati” per la legge e nella maggior parte dei casi subordinati di fatto, come ampiamente dimostrato dalle indagini condotte negli ultimi anni da ISTAT e ISFOL e snobbate dagli autori dei commenti del Sole 24 ore che preferiscono invece sproloquiare sull’argomento regalandoci qualche perla come quella che annovera gli “associati in partecipazione” tra i “profili professionali più definiti” e una serie di argomentazioni sconclusionate finalizzate evidentemente a dimostrare l’indimostrabile, cioè che anche se l’80% dei collaboratori è monocommittentiee la maggior parte di essi aspira al riconoscimento della loro condizione (e dei loro diritti) di lavoratori subordinati, siccome non ci sono riusciti vuol dire che non possono accampare alcuna pretesa. E’ la dura legge della giungla … Cornuti e mazziati, insomma…
p.s. Si noti che i dati INPS dimostrano la stabilizzazione nella precarietà: gli ex giovani sono ormai adulti. Che tipo di precarietà attende i loro figli che non avranno, come invece hanno avuto loro, il paracadute del welfare “lavoristico” dei loro genitori.
(Non è verosimile che siano tutti degli abili professionisti della comunicazione come te, caro Dario…)
Ciao Dario, secondo me invece Ichino parlando di ‘collaboratori continuativi autonomi’ aumenta ancor di più la confusione:
perchè è vero che ci sono anche i ‘collaboratori continuativi autonomi’, ma è anche vero che ci sono anche centinaia di ‘lavoratori autonomi’ che NON sono collaboratori continuativi di alcunché, né vogliono esserlo, e tuttavia sono esattamente nella condizione da lui citata.
Avrebbe fatto meglio a dire direttamente ‘lavoratori autonomi con partita IVA’, specificando che tra loro ci sono ANCHE ‘cocopro’ costretti ad aprire la posizione IVA.
Perchè sono proprio quelli che lui definisce ‘collaboratori continuativi autonomi’ che giustificano, per l’INPS, l’innalzamento delle aliquote per equipararle ai dipendenti; ma questo agli ‘autonomi veri’ sembra solo un furto legalizzato;
gli autonomi veri vorrebbero essere equiparati ai professionisti, non ai dipendenti.
(Perché un avvocato deve avere un’aliquota del 15% e io, lavoratore autonomo con una professione molto meno remunerativa, devo pagare il 24%?)