Web class e no-collar

Devo a Lorenzo la bella segnalazione del testo di Sergio Bologna pubblicato su Luhmi dal titolo “Uscire dal vicolo cieco” (.PDF 120 Kbyte – Download anche qui). Una lucida riflessione sul tema della classe media e in particolare dei lavoratori della conoscenza che svolgono attività di lavoro autonomo. Quelli che io chiamo “Liberi Professionisti Digitali“. Bologna ricostruisce la genesi di questa classe di lavoratori, la “Web class”, nata negli anni novanta, con i movimenti open source, con la new economy e l’esplosione di Internet:

Qui si è formata quella nuova classe che i guru del management come Drucker chiamano knowledge workers, sociologi come Floridacreative class” o economisti e politici come Robert Reich “analisti di simboli”. Hanno sognato un nuovo mondo, un nuovo modo di lavorare, di fare impresa, un diverso modo di definirsi, né blue collar né white collar, tant’è che uno come Andrew Ross, cronista egregio della loro storia, li ha chiamati no-collar. È dalle vicende di questa web class – passatemi il neologismo – che bisogna ripartire per capire a fondo la natura del postfordismo e la sua capacità di rendere strutturale la condizione di lavoro precaria.

Per Sergio Bologna è ora di finirla con la riproposizione di un progressismo che vede soltanto nella classe operaia la possibilità di riscatto. È indispensabile trovare nuovi criteri di tutela delle condizioni lavorative che non rientrano nel contratto-tipo del lavoro subordinato, nuovi ammortizzatori sociali, nuovi incentivi – che compaiono, pur timidamente, anche nel programma elettorale di Segolène Royal in Francia. Questo si rende necessario perché nella digregazione del modello di produzione fordista, le “imprese individuali”, che in realtà sono lavoratori autonomi, diventano costellazioni instabili che gravitano intorno al mondo del lavoro dipendente, ma non ne fanno parte e hanno uno statuto completamente diverso.

Il postfordismo diventa problema marginale e il precariato problema fisiologico. Si tratta di un periodo transitorio della vita lavorativa di ognuno di noi (il periodo del “flusso”), destinato rapidamente a estinguersi e passare poi al periodo dell’occupazione stabile (il periodo dello “stock”) e sicura per tutta la vita. Insomma il precariato come malattia infantile, come il morbillo, la scarlattina. L’unica idea di lavoro è quella che corrisponde alla fattispecie del contratto di lavoro a tempo indeterminato; il precario, l’atipico, il non standard sono riconosciuti solo come “figure di passaggio”, fanno parte dell’effimero del mercato del lavoro; scompariranno quando entreranno nella forza lavoro stabile, nello “stock” di forza lavoro. Vengono aumentate le aliquote contributive però. Effimeri come cittadini lavoratori, ma non come cittadini contribuenti.

In altre parole, un modello serio di lavoro autonomo non esiste, ma si riduce ciò che è diverso dallo standard (dipendente-a-tempo-indeterminato) a marginalità. La domanda è dunque: siamo proprio sicuri che si tratti di margini? Bologna fa notare come 6.179.000 lavoratori operino in imprese sotto i 2,7 dipendenti, che poi non sarebbe neppure corretto definire “imprese” perchè mancano di una delle tre componenti elementari per fare impresa: capitale, management e forza lavoro. È piuttosto un universo del lavoro autonomo “con un elementare grado di organizzazione”, fenomeno antico, ma esploso proprio in coincidenza del diffondersi di rapporti postfordisti.

Negli ultimi anni le imprese hanno continuato a decentrare, a subappaltare, a esternalizzare, a restringere sempre più l’area del core manpower e a ingrossare l’area della microimpresa o del lavoro autonomo con un elementare grado di organizzazione. Il blocco dei salari avrebbe dovuto indurre le imprese a ingrandirsi, ad assumere più gente “in pianta stabile”, a investire in ricerca e innovazione. Invece è avvenuto il contrario: sempre più frammentati, sempre più piccoli, sempre più fragili, sempre più low tech. Questi sono milioni dipersone che lavorano in condizioni precapitalistiche, che non hanno mai avuto un soldo in prestito da una banca mentre l’azienda che fino all’altroieri è stata di Tronchetti Provera ha 43 miliardi di euro di debiti con le banche e a tutti sembra normale.

Questo sistema low tech e non la grande impresa traina l’occupazione. Mentre le grandi società godono di protezioni e monopoli, si afferma un capitalismo in cui la rendita prevale sul profitto.

Un Paese dove l’ingiustizia sociale regna e dove quelli che stanno peggio sono proprio i giovani, in particolare quelli che investono in formazione, quelli che lavorano in proprio, che cercano di cavarsela, dopo aver aspettato per anni un’occupazione adeguata alla loro formazione. Il prezzo più alto lo paga il capitale umano, lo pagano le competenze, lo paga il merito, lo paga l’intelligenza. Chissà quando i giovani italiani si renderanno conto pienamente che per il loro capitale umano non c’è mercato, che conoscenze e competenze vengono misurate solo in rapporto al costo, che si trova lavoro solo per raccomandazioni, che la qualità dei posti di lavoro si deteriora ogni giorno di più […] in termini di retribuzione, di dinamiche di carriera, di rapporti col sistema gerarchico/disciplinare dell’impresa e di rapporti tra colleghi, in termini di stress, di lunghezza delle giornate lavorative, di sicurezza del posto di lavoro, di riconoscimento del merito e così via.

Ed è proprio il deterioramento della qualità del lavoro dipendente che spinge molti giovani a scegliere il lavoro autonomo. E qui nasce l’altra mistificazione, per Sergio Bologna. Molti autonomi, in realtà sono dipendenti mascherati.. Il fenomeno centrale di questa fase dell’epoca postfordista o della “nuova economia” resta comunque la crisi della middle class nei Paesi occidentali. Non sono cioè gli strati marginali della società a scricchiolare, è la componente centrale a perdere colpi, a non vedere un futuro, “a non riuscire a ritagliarsi una fetta della torta”.

Welcome to the middle class poverty è lo slogan che il sindacato dei freelance di New York (40.000 iscritti) ha scritto sui volantini diffusi a migliaia nella metropolitana.

E allora facciamo due conti, con Bologna. I precari in Italia sarebbero 3.757.000 pari al 12,2% dell’occupazione totale. Il reddito annuo netto di un lavoratore a termine sarebbe in media di 12.438 euro, di un Co.co.pro. di 10.191 euro, di un lavoratore dipendente con contratto a tempo indeterminato di 15.342 euro e di un autonomo di 23.277 euro. Senza contare lavoro nero e cooperative. Sergio Bologna cita una recente indagine sui giornalisti (la creative class):

In cinque anni (dal 2001 al 2006) sul totale dei lavoratori, quelli dipendenti sono scesi dal 23,3% al 7,9%; i lavoratori parasubordinati (Co.co.pro. e altri) sono scesi dal 20,9% all’11,1% ed i lavoratori autonomi – i freelance veri e propri – sono cresciuti dal 55,8% all’81% del totale. Per quanto riguarda i livelli di reddito dei freelance, il 40% guadagna meno di 1.200 euro lordi al mese ed il 18% meno di 600 euro lordi, ma c’è anche un 30% che guadagna più di 2.500 euro al mese lordi.

Purtroppo da queste voci esce quasi sempre un senso di impotenza, poche le proposte d’iniziativa, come se si fosse persa la cultura dell’azione dal basso. Anche questo fa parte del “mutamento genetico”.

Qualcuno dice che la middle class non è per sua natura capace di organizzarsi sindacalmente. Invece il postfordismo anche qui porta dei cambiamenti. Dieci anni fa a New York un’avvocatessa ha messo in piedi “Lavorare oggi” un sito che poi diventa la ‘Freelancers Union’, che pone una serie di rivendicazioni: assistenza malattia, pensione di vecchiaia, fiscalità meno pesante, misure contro i committenti che non pagano. Oggi, coi suoi 40.000 iscritti, è una delle lobby che condizionano il governo della Grande Mela.

E anche se si parla di “generazioni”, non è un problema soltanto giovanile, ma di classe, di soggetti che devono imparare a riconoscersi e dialogare.

Per questo abbiamo buttato lì il termine Web class e chissà che non funzioni. Ma abbiamo detto web class perché ci vediamo dentro un elemento positivo, un potenziale di organizzazione, di autotutela e quindi di soggettività politica. Web come ‘costruzione di una rete’, come strumento potente di comunicazione, come Babele di lingue dove però alla fine impariamo a riconoscere i nostri simili, dove possiamo stabilire codici d’identificazione e parlare in tempo reale e reagire alla quotidianità incessante delle cazzate che vengono pronunciate sul nostro conto. Web class come cooperazione tra intelligenze, competenze, skill, come costruzione di un sistema di pensiero, sofisticato ma chiaro, intelleggibile a tutti, fatto di poche idee centrali, schematiche, tagliate con l’accetta – privilegiate.

Appartenenti alla Web class, senza colletto, di tutto il mondo: linkatevi!

Ultima modifica: 2007-05-07T11:36:13+02:00 Autore: Dario Banfi

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