Telelavoro sotto accusa. Ci prova Anna Masera con il racconto di una telelavoratrice pentita, che dopo anni di distanza dall’ufficio rientra e rinnega il passato. La vicenda – spalleggiata da un pezzo di Gianluca Nicoletti sulle patologie giapponesi degli hikikomori, giovani che vivono barricati in casa – ripercorre i soliti quattro stereotipi sul telelavoro: isolamento sul piano dell’organizzazione del lavoro; scarse relazioni sociali; incapacità di separare vita personale e impiego; deregolamentazione dei tempi di lavoro. Manca, ma è giusto ricordarlo, poichè spesso si cita, tra gli aspetti negativi l’immobilità nei percorsi di carriera.
Prossemica digitale e lavoro
Se è vero che ogni lavoratore fa storia a sé, è presto detto che questa vicenda lascia proprio il tempo che trova. Io credo che in ogni professione la corrispondenza con le proprie caratteristiche individuali (carattere compreso), aspirazioni, capacità e conoscenze si misuri nelle singole e specifiche attività svolte. La soddisfazione nasce da un mix positivo di risposte a stimoli e sfide, compiti e responsabilità. E dalla capacità di amministrare ed essere padroni del proprio tempo e degli spazi di lavoro, compresa la prossimità con i colleghi.
Nel telavoro, è vero, esistono pacchetti preconfezionati, che qualcuno decide di “acquistare” in bundle (come si dice per gli abbonamenti a Internet) con attese inespresse prontamente disilluse, soprattuto se si tratta di lavori routinari, nell’area dell’amministrazione e controllo, di conctact center ecc. Nel segmento delle professioni creative, legate a progetti, di consulenza ecc. la questione, tuttavia, è completamente differente, va ribaltata nei termini. Soprattutto se si tratta di lavoratori autonomi.
In questa “gabbia” che è il lavoro a distanza si può trovare un equilibrio che nessuno spazio chiuso, orario predefinito o gerarchia di capi e capetti è in grado di interpretare al meglio per conto vostro. Questo è il valore aggiunto del telelavoro: la possibilità di amministrare la flessibilità. Quando vengono meno le condizioni ambientali allora è meglio cambiare aria, certamente, ma fino a prova contraria, se non si hanno vincoli stretti, ogni fattore di successo o insuccesso nella messa in opera di un’attività giornaliera e di lavoro, dipende solo ed esclusivamante dal telelavoratore.
Percorsi aperti
Certo avere quattro figli che scorrazzano per la casa, non è l’ideale. Ma come fanno le famiglie che hanno dovuto crescerne quattro, come è accaduto nella mia? Risposta: A) madre (quasi sempre) o padre rinunciano al lavoro, oppure chiedono un part-time o svolgono lavori con orari ridotti (insegnanti ecc.); B) affidano ai nonni o ad altri la crescita dei propri figli; C) si affidano a uno Stato Sociale forte, fatto di servizi su misura; D) puntano sul lavoro autogestito, magari a distanza.
P.S. L’opzione C) era uno scherzo.
Avere potuto continuare a lavorare, da remoto, in queste condizioni, non è dunque uno svantaggio sociale, ma un’opportunità per garantire al proprio percorso di vita e di lavoro una certa continuità, sebbene fragile, ma che consente di rientrare in ufficio in età adulta. Consente di mantenere una flebile opportunità di autoformarsi, negli interstizi di tempo che il lavoro a distanza concede. Di rimanere “connessi” al mercato e non è poco.
Aria, aria, aria, per favore…
Personalmente, starmene fuori da uffici ammuffiti – dove si consumano riti assurdi come riunioni senza senso o si assiste alla pietosa condizione di chi deve sbarcare il lunario, ingrigito dal suo calamaio, o tirare a sera dimostrando di sapere fare ciò di cui non capisce un accidente – è una benedizione del cielo. Partecipare alla vita di organizzazioni che deprimono lo spirito vitale di un individuo mette una tristezza infinita. Contagia, come la peste.
Che senso ha bere un caffé con un collega che si stima allo stesso livello di un bradipo raccomandato allo zoo? Senza entrare nel merito delle opportunità concesse oggi dalla tecnologia (pars costruens di un’apologia del telelavoro, che mi riservo per un altro post), c’è comunque una pars destruens invitabile da affrontare quando si pensa ai luoghi di lavoro offerti da molte imprese. Mediamente, diciamo.
La miscela del caffé
Sempre personalmente. Quando faccio una pausa vado al bar, in strada. Oppure passo in emeroteca a leggere giornali. In alternativa, mi sciroppo film scaricati da eMule, telefono ad amici freelance, svolgo attività parallele, progetti personali (il blog, per esempio), leggo libri che non c’entrano un fico con il mio lavoro. Non c’è niente di più bello di spararsi 30 pagine di un saggio tra le 14:00 e le 15:00 (momento di stanca per tutti, credo), prima del rush finale. A volte, certo, capita di sospendere ogni cosa, ma questo è il bello. Non la chiamerei libertà, ma semplicemente, varietà. Forse, per i più fortunati, intensità.
Meglio giornate da creare, vivere o interpretare di volta in volta. Meglio giornate di lavoro varie che avariate (imho). Ovviamante sono considerazioni che lasciano anch’esse il tempo che trovano, per fortuna. Perché significa che descrivono condizioni aperte.
UPDATE: Mi accorgo ora e vi segnalo che anche Angela in un bel post ha trattato il tema del telelavoro, citando la recente sperimentazione di Telecom Italia.
Io penso che sia solo un problema di ambiguità della parola telelavoro.
Il professionista che svolge la sua attività dove meglio gli aggrada (una volta ci si faceva lo “studio” che era una sorta di status symbol del professionista) non fa telelavoro in senso stretto perchè non è mai separato fisicamente dalla sua “azienda”.
Per tutti gli altri invece il problema è “a monte” perchè una attività routinaria è per definizione una jattura. A questa classe di lavori, il telelavoro elimina il tram tram dello spostamento fisico ma peggiora indubbiamente gli aspetti di interazione sociale.
Hai ragione Ubik, anche se a mia volta devo sottolineare che la stessa parola professionista è ambigua :-) Oggi molti lavoratori autonomi non sono liberi professionisti (= iscritti a un Albo), ma operano nella maniera classica di un professionista. Il loro contenuto lavorativo, molto spesso, è del tutto assimilabile a quello di un lavoratore dipendente.