Mi sono chiesto più volte quale fosse l’approccio più corretto per guardare alla trasformazione del lavoro e a come la tecnologia influisse sulle dinamiche di precarizzazione o stabilizzazione. E sono sempre più convinto che molta retorica sui call center non abbia in realtà il coraggio di una critica radicale, che vada fino in fondo. Credo servano punti di vista nuovi per leggere i fenomeni.
Qualche settimana fa sono incappato in documentazione tecnica dedicata ai software in uso presso i contact center, moderni sweatshops tanto deprecati. Poi ho capito.
Provate a leggere queste pagine sui KPI (Key Performance Indicators) e sarà più chiaro anche a voi. La radice del problema, se posso azzardare un nuovo approccio alla questione call center (che non definirei soltanto legata alla precarietà, bensì alla “qualità del lavoro”), in questo caso sta negli algoritmi e nella misurazione tecnica: ha silenziosamente sostituito l’Art. 4 dello Statuto dei Lavoratori sul “Controllo a Distanza”, nell’indifferenza totale dei sindacati. I quali, forse, farebbero bene a studiare le differenze tra Siebel Systems, Dynamics CRM, Amdocs ecc. Alla fine sono queste le sottili differenze che interessano agli imprenditori, schiavi a loro volta delle logiche di quantificazione con cui contrattano i servizi per conto terzi.
Come nella realizzazione di interfacce grafiche per computer, per l’usabilità dei servizi o la libertà d’uso del software da anni nessun produttore chiede alla comunità dei suoi utenti quale approccio cognitivo o sociale ritenga più opportuno e migliore per uno sviluppo economico e sostenibile, o a misura di persona, così, allo stesso modo, al nuovo operaio dei dati, al fabbro dei dialoghi in cuffietta e al sarto del servizio clienti nessuno chiede se sia più opportuno definire parametri per la misurazione delle performace che abbiano a che fare con Average Handling Time, Calls per hours, o altre diavolerie matematiche che la business intelligence preconfeziona per loro in qualche Software Lab di note multinazionali.