Singolare dialogo a distanza tra Pietro Ichino (“Il merito e il salario“, Il Corriere della Sera), Tito Boeri (“La gabbia dei contratti“, La Stampa) e Giorgio Cremaschi (La gabbia del liberismo concertativo sui salari, Liberazione) che sulle colonne di tre giornali differenti si sono confrontati in questi giorni sul tema della variabilizzazione delle retribuzioni e sui rinnovi dei contratti [fermi per il 57,5% dei dipendenti].
Forse a chi non legge i tre giornali contemporaneamente sarà sfuggito, ma un confronto incrociato come questo aiuta moltissimo per capire oggi quale siano le ragioni che contrappongono il sindacato più intransigente (FIOM) alla politica che, per esempio, porta avanti questo Governo che ha inserito nel Protocollo sul Welfare dispositivi che vanno nella direzione della flessibilità retributiva associata alla produttività (= detassazione degli straordinari e dei premi di risultato).
Scrive Tito Boeri:
“Se i primi vengono pagati poco anche quando l’azienda diventa efficiente, perché mai dovrebbero dannarsi l’anima per migliorare i risultati aziendali? […] La mancanza di flessibilità salariale, gli scatti di anzianità automatici e nessun legame con la produttività spinge i datori di lavoro a liberarsi prima possibile dei lavoratori anziani…”
…e, aggiungo io, a pagare pochissimo i giovani. Per Boeri si dovrebbe stabilire un salario minimo nazionale e lasciare libera la contrattazione aziendale di attuare deroghe – anche a ribasso – sui CCNL, anche grazie al sindacato, ovviamente, che invece di operare soltanto a livello nazionale dovrebbe attivarsi anche a livello locale.
Pietro Ichino, invece, ricorda che i risultati di un’impresa sono determinati dalla struttura organizzativa, ma anche dai singoli. Non ha senso dare salari “stabili e indifferenti” rispetto al singolo lavoratore. La struttura della contrattazione nazionale lascia purtroppo poco spazio ai premi di risultato. Ergo, bassa produttività. Serve un’iniezione di meritocrazia nei contratti collettivi e individuali.
Se queste due posizioni sono abbastanza allineate, la replica di Giorgio Cremaschi spariglia le carte in tavola e mette in chiaro la posizione dell’estrema sinistra. Ricorda così il principio che guida l’analisi di Ichino e Boeri: “Soltanto il legame tra produttività e retribuzione garantirebbe un effettivo incremento in busta paga. Solo l’aumento dei profitti si tradurrebbe in aumento del salario: come dice Sarkozy guadagna di più chi lavora di più“. Ma già l’abolizione della scala mobile, anni fa, non aiutò molto a flessibilizzare le retribuzioni. La colpa? Dell’accordo del 93, il cui vero limite non fu l’eliminazione della copertura automatica dei salari, ma l’impossibilità di fare rivendicazioni salariali superiori all’inflazione programmata. Dice Cremaschi:
“Quando il sistema economico andava male le aziende potevano non rinnovare i contratti senza neppure pagare la scala mobile, mentre quando il sistema andava meglio il sindacato non poteva chiedere più dell’inflazione. Le perdite dei periodi di difficoltà non venivano mai recuperate nei momenti di migliore andamento economico. Non è il Contratto Nazionale a mettere in gabbia i salari, ma l’accordo del 93 a costringere i CCNL a non seguire più l’andamento reale dell’economia“.
Per Cremaschi è il classico rovesciamento tra l’aggressore (il sistema concertativo fissato nel 93) e la vittima (i contratti nazionali). La contrattazione nazionale va estesa, non ridotta. Oggi si propone invece alla concertazione (locale) di affossare la contrattazione (nazionale), dando “il via libera alla totale individuazione del salario“. Se tutti lavorano di più alla lunga il salario medio crescerà? Per Cremaschi è una “balla dei due professori, ma non c’è nulla che dimostri che il salario è destinato a crescere”. E’ una deriva liberista insopportabile, dice Cremaschi.
Intanto la situazione dei lavoratori senza contratto, a causa di regole stabilite nel Patto del 93, dell’incapacità del sindacato, della scaltrezza degli industriali – non è dato sapere – è questa: