Come sapete il buon Livio da tempo sta proponendo su questo blog alcune importanti riflessioni sul tema della paternità. Oggi il Corriere della Sera e Il Giornale riportano la notizia che il ministro degli esteri inglese David Miliband ha chiesto il congedo parentale. Chapeau. Un esempio notevole, devo dire. Per una nazione e per la sua cultura del lavoro.
In Italia la cultura della paternità è ancora piuttosto ferraginosa, anche nei metodi per forzare un cambiamento. Prova ne è l’aneddoto raccontato da Angela Padrone, che riporta l’esperienza di Giulia Buongiorno, l’avvocato di Giulio Andreotti, che dopo avere assunto una nuova dipendente in studio chiama la società del marito e dichiara: “Vorrei assumere questa persona, però voi mi dovete garantire che concederete anche al marito di assentarsi per le malattie del figlio, così da dividere l’onere tra me e voi. Altrimenti sarete responsabili della mancata assunzione di questa avvocatessa“.
Un giro piuttosto complicato per ribadire che tra diritto (prendersi permessi e malattia per assistere un familiare indipendentemente dal sesso del richiedente) e condizioni di fatto [e soprattutto cultura d’impresa, in molti casi ferma al modello patriarcale degli anni ’30] esiste una spettacolare distanza che soltanto i paradossi mettono alla scoperto.
E tra le numerose contraddizioni in materia vi segnalo la mia personale.
Questi sono giorni difficili per i lavoratori autonomi. Oggi in particolare, in cui scadono i pagamenti dei contributi previdenziali per la Gestione Separata. Per non sprofondare nel rosso da interessi passivi, ho dilazionato in tre rate i pagamenti contando sull’entrata di un pagamento fatturato a luglio (!). Il cliente (una multinazionale) mi ha informato che avranno problemi nel pagarmi avendo a loro volta ritardi nel pagamento della commessa da parte del cliente per il quale abbiamo lavorato insieme. Inutile ribadire un bel chissenfrega dei problemi contabili di chi è strapieno di soldi. Mi tocca, come spesso accade, fare credito alle grandi società (e allo Stato, visto che ho già pagato l’IVA!). La cosa buffa è che poi si certificano “socialmente responsabili”, magari con il beneplacito dei sindacati.
Che c’entra con la paternità? Facile: guardate come sono composti i miei oneri previdenziali:
Dopo il danno la beffa: sapete quali diritti di paternità ho versando contributi legati alla maternità? NESSUNO. Niente, nisba. Mi attacco al tram, si dice a Milano. La mia quota serve alle madri che lavorano come autonome, che sono certamente contento di aiutare. Non sarebbe male, però, se le imposte avessero anche un controvalore in servizi per me, ma il diritto del lavoro italiano me lo nega.
A chi telefonava la Buongiorno se quella era mia moglie? La assumeva ugualmente?
Ciao Dario, così come descritto il caso della (mancata?) assunzione da parte dello studio di Giulia Buongiorno è decisamente odioso nelle sue modalità. Però lo stesso solleva un punto importante che è lo squilibrio, a sfavore della donna, delle cura dei figli nell’organizzazione delle famiglie e che alimenta la discriminazione sul mondo del lavoro nei confronti delle donne.
Ad esempio in italia una % irrisoria dei congedi parentale richiesti all’INPS riguardano i padri mentre in Norvegia l’80% dei padri usufruisce del “mese del papà” di 4 settimane. Analogamente si può fare questo discorso per i permessi per malattia dei figli. Siamo pronti noi padri a questo cambiamento? L’importante è cominciare e non pensare: io no!