Cattivi pensieri sul lavoro giornalistico

Libro Bianco sul Lavoro NeroQui non c’entrano i blog, Internet e tutta la vicenda cara agli impallinatori della carta stampata. La storia è ben diversa. Distante anni luce da chi si diverte a trovare refusi su Corriere.it o agenzie di stampa, oppure a pesare il numero di immagini di scosciate messe in home page. Sto parlando del precariato nel giornalismo nostrano, una materia che non sarebbe male che si conoscesse di più, anche tra chi scrive online.

Per lavoro ho dovuto leggere e recensire (leggi il .PDF) di recente il “Libro Bianco sul Lavoro Nero”, pubblicato dal Centro di Documentazione Giornalistica e mi sono sentito in forte imbarazzo. È regola diffusa infatti che i giornalisti non parlino mai di se stessi sui media. Si sono ritagliati da anni uno splendido spazio di riflessione, ma è prassi comune evitare di portare sul tavolo delle redazioni notizie sul mercato giornalistico. Troppo naive l’autoreferenzialità. La conseguenza? Il sottobosco del mercato del lavoro giornalistico è diventato oramai una selva oscura, dove si trova di tutto, ai limiti della legalità e rigorosamante taciuto al pubblico.

Il giudizio tracciato da Mario Fiorella, magistrato del Lavoro: “La situazione del settore dell’informazione è tale che può essere paragonata soltanto a quelle più marginali del mercato del lavoro, alcuni settori dell’agricoltura e dell’edilizia, dove le regole sono sistematicamente eluse e si fa ricorso a manodopera precaria, facilmente ricattabile e appetibile perché può sostituire quei lavoratori in grado di fare valere i propri diritti con altri che non ne hanno la forza o la possibilità”. Precariato, lavoro nero, compensi irrisori, sfruttamento del volontariato di chi aspira a intraprendere la carriera giornalistica, ma non trova le condizioni per svolgere un regolare praticantato, insicurezza e mortificazione della dignità professionale sono la regola non soltanto nelle piccole realtà editoriali.

Le storie, rigorosamente vere, sembrano tratte da un manuale del cattivo imprenditore o scritte da squilibrati. Eppure il 90% sono lettere firmate. Storie vissute sulla pelle dei giornalisti italiani, molti dei quali professionisti. Quello che si evince è la totale, sistematica mancanza di rispetto della persona. In seconda battuta, si intravede un’indecente e quanto mai significativa assenza di pianificazione strategica da parte degli editori che non hanno la benché minima idea di cosa significhi “percorso di carriera”, come se l’Editoria non fosse un settore industriale, ma un mercato delle vacche dove si produce al chilo e ogni tanto si manda al macello qualcuno. L’avanzamanto per merito, il riconoscimento del minimo sindacale (non di cose avulse dalla realtà, ma roba tipo un contratto, una busta paga, un rimborso delle spese o una tariffa anche solo leggermente più alta di quella di un collaboratore domestico) sono merce rara. Uno schifo. E soprattutto un mondo dove l’epoché fa scuola. La sospensione del giudizio regna sovrana [nessuno sa mai che cosa dire o fare per te], in attesa di sorti migliori, che non arrivano mai e per sfinimento annichiliscono anche la volontà dei più tenaci.

Questo testo, se vero (come credo che sia), mette in luce una verità terribile: di illusioni si può morire professionalmente. Si può tranqullamente arrivare a 40 anni senza avere ottenuto nulla dopo fatiche immani.

Lo schema è il solito: collaborazione / aumento delle responsabilità / richiesta di adeguato inquadramento / silenzio-dissenso / insistenza nelle richieste di regolarizzazione / scontro / interruzione del percorso professionale o giudice del lavoro. La cosa che più impressiona è come questa vicenda sia ciclica, a sostituzione generazionale, e si basi in gran parte delle relazioni tra editori e giornalisti precari e collaboratori sulla totale assenza di poter contrattare un salario. È una caratteristica unica del nostro giornalismo: prima lavori e poi si stabilisce il tuo compenso. Non accade da nessuna altra parte, in nessuna altro settore. E a questa prostituzione intellettuale si devono piegare tutti i giovani talenti che vogliono emergere, nel silenzio complice dei redattori che commissionano i pezzi o dei caporedattori che devono mettere in piedi redazioni, coprire spazi, tornare a casa sicuri di avere chiuso la pagina, perché è questo ciò che conta, non il sudore malpagato di chi le notizie le scrive.

Il Libro Bianco sul Lavoro Nero è uno schiaffo all’informazione e alla dignità del lavoro prima ancora che alla libertà di stampa. E al tempo stesso è uno specchio opaco del giornalismo, dove l’autocensura mostra il paradosso quasi irrisolvibile di chi teme di non essere credibile nel definirsi pubblicamente un pazzo. La situazione – lascia intendere il libro – certamente non potrà che continuare in questo modo. Nessuno scriverà mai in prima pagina: “Questo giornale è prodotto in maniera illegale” e neppure la guerra tra bande degli “in” e degli “out” è possibile. Piuttosto è praticabile una presa di posizione da parte dei giovani aspiranti Montanelli e di chi li fa scrivere. Si sveglino, magari leggendo ciò che è accaduto a chi li ha preceduti. L’ostacolo è là, in quello che in un altro post definivo lo ziggurat, e nella mancanza di trasparenza sulle condizioni di lavoro. Ma anche nella falsa coscienza di chi sa di prostituirsi e crede di potere cambiare strada o pappone. Oltre al pappone stesso, ovviamente.

Io spero soltanto una cosa, dopo avere letto questo testo. Che nella prossima generazione dei “sostituti collobaratori” non si facciano intrappolare anche i blogger. In parte certamente lo stanno già facendo. E questo non giova a favore del lavoro giornalistico. Non tanto per la solita questione della qualità e delle fonti. [Chissenefrega (anzi, mettiamola come “seconda questione”)]. Sto parlando di lavoro, non di giornalismo. Ma perché entrerebbero a far parte, in maniera più o meno consapevole, dei giovani di buone speranze, volonterosi, intelligenti, preparati, esperti, che possono vivere anche loro un momento di gloria, ma alla fine, nel medio termine, rimarrebbero semplici volontari per la causa del “minor prezzo possibile”, una delle poche ragioni che insieme al potere politico interessano oggi a quasi tutti gli editori italiani.

Ultima modifica: 2007-03-02T20:53:15+01:00 Autore: Dario Banfi

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