Busker, talenti e blog

Chiedo venia ad Antonio e Alberto, ma riesco soltanto oggi a postare su questo bellissimo tema da loro affrontato tempo fa. La questione è molto, molto attuale. Questa settimana a Cervia i direttori HR delle maggiori imprese italiane discutono proprio di talent management. È di moda, ok, ma siamo anche in un periodo in cui l’appiattimento del sistema di ricompense, l’emarginazione degli alti potenziali, soprattutto giovani, e la flagranza di reato di smaccate supervalutazioni stanno mettendo allo scoperto un sistema italiano di valutazione del Capitale Umano a dir poco raccapricciante. In politica, nelle imprese, nel sistema sociale. Qualcuno si è stancato. Io, per esempio. E così vi propongo questo (lungo) post, per blogger e non solo.

Incipit

La discussione aperta su Webgol era nata dal caso di Joshua Bell, ma visto che sono stati tirati in ballo i blog, facciamo pure un passo avanti, tralasciando la solita teoria sull’innatismo del talento artistico per approfondire quello più generale, legato al saper fare (bene) ciò che si fa. Con talento, appunto.

Performance, contesto e (troppo) giovani talenti

Fissiamo qualche paletto. Stabiliamo – come accade oggi, per esempio, nella cultura d’impresa – che il “talento” equivalga alla capacità di realizzare prestazioni in un contesto determinato, l’essere in grado cioè di generare risposte innovative, efficaci ed efficienti (anche “belle”, perché no?) a richieste precise che provengono da un ambiente (economico, sociale, imprenditoriale, culturale ecc.). Escludiamo l’arte, che ci porterebbe lontano. Se queste premesse sono vere, mi chiedo, possono esserci allora talenti anche tra blogger?

Eliminerei subito due malintesi: 1) la questione contesto. Alberto sostiene che online manchi e questo deficit faccia emergere il cuore dei contenuti. Personalmente non sono così sicuro che non vi sia alcun commitment, nessun vincolo personale. Così, velocemente, direi  che anche online esistono strutture, sovrastrutture, valori, reti di persone o (come dice Sergio) una consistente “parte abitata” che – a mio avviso – riproducono un mondo e lo rendono più interessante, comprensibile, leggibile. C’è contesto, eccome. Non userei dunque la metafora del Web come una Buskerville. Perché non è una strada isolata o secondaria. I blog sono in media res. E anche in media e in rebus, contemporaneamente: basati su un mezzo di comunicazione, ma parlano di cose vere;
2) il secondo fatto riguarda la maturità del talento e le tappe intermedie. Il Web le elimina? Nel vecchio saggio The Development of Talent Project, Benjamin Bloom analizzò la carriera di diversi personaggi di fama mondiale: scacchisti, matematici, neurologi ecc. Scoprì che in queste diverse professioni ci vogliono dai 10 ai 18 anni per emergere come talenti a livello mondiale. L’esatto periodo di tempo varia da persona a persona e in base alla professione. Diciotto anni! Ora il Web è po’ come i cani: al compleanno fa un salto di sette anni in avanti. Ma andrei cauto, comunque, con l’associare talento e blog, per una questione di relativa giovane età del fenomeno e l’indecisione se trattare o meno il blogging come disciplina. Per spirito dialettico, facciamo comunque finta che lo sia e stiamo al gioco..

La scalabilità del sistema

Una classica distinzione che adottano le imprese che hanno sviluppato sistemi di talent management è tra “alti potenziali” (high potential) e soggetti considerati “promotable”, promuovibili. I primi sono in possesso di talento. Sanno mettere in campo qualità superiori che fanno la differenza nelle organizzazioni. Hanno la capacità di risolvere situazioni complesse, innovare, di scommettere e vincere. I secondi sono alti potenziali e, in più, hanno una chance reale. Dispongono cioè un tavolo su cui puntare, opportunità di carriera concrete, posizioni aperte o previste in azienda. Questo duplice binario [competenza individuale e credito concesso] è molto interessante, per due motivi: 1) la possibile attinenza con la doppia fiducia di cui scrive Antonio; 2) l’importanza del contesto organizzativo come fonte reale di promozione.

In un contesto organizzato infatti il talento non è mai disgiunto dall’opportunità [offertagli o conquistata] di fare valere i propri tratti distintivi. Il talento promotable fa solitamente una buona carriera. Chi ha, invece, soltanto un buon potenziale non è escluso che permanga in stallo, in un circolo virtuoso, ma improduttivo, per l’assenza di una posizione che lo renda “promoted”. Le imprese, i partiti politici, le organizzazioni più accorte pianificano questi percorsi, guardando con significativo interesse al posto vacante da lasciare agli alti potenziali. Costruiscono così il proprio futuro. Sono poche per la verità, ma ci sono.

Molto del talento sprecato è dovuto perciò all’incapacità di riconoscere il potenziale (capita raramente che un capo incompetente promuova un collaboratore più valido di lui) oppure all’inabilità nel progettare un’organizzazione che non esiste ancora. L’autoreferenzialità, la tradizione, la conservazione del potere, la rendita da posizione, la mancanza di fantasia e di coraggio da parte di chi potrebbe promuovere, ma non lo fa, sono la peste del talento. L’italietta dei padroncini, dei nepotismi, dei paraculati sono la morte civile dell’innovazione e degli innovatori.

Beninteso c’è anche chi esagera in direzione opposta, facendo del performance management una macchina da guerra. Un esempio: multinazionali come Microsoft, Pfizer, Coca-Cola ecc. hanno sposato un certo Stephen Drotter e la sua teoria delle “leadership pipeline” (cfr. l’immagine sotto). Passo a passo, il talento è misurato (secondo le performace prodotte) in ogni suo movimento. E quando esce dal seminato, dal percorso, probabilmente viene scartato. Irreggimentare la responsabilità di chi innova, come si può intuire, è altrettanto nocivo, poiché libertà d’espressione e talento vanno quasi sempre in coppia.

Leadership Pipeline

La blogosfera non è un’organizzazione gerarchica

Ora la domanda è: chi promuove un blogger e secondo quale scala di valori, potere e responsabilità? Pensare che siano gli algoritmi di Google, la popolarità misurata da Blogbabel e via discorrendo non mi convince affatto. Una delle ragioni la racconta il blog Meta-Etica, che mette a fuoco l’impertinenza del nuovo Moloch chiamato “ranking”, metodo elementare per creare nuove sovranità, necessarie e (ahimè) sufficienti, svincolate però dalle vite reali che permeano il Web.

Ridurre il talento a quante blog reaction siamo in grado di dare vita col nostro blog oppure alle occorrenze di una parola all’interno di un testo è mortificante. Nichilismo, si diceva. La manna, però, dei marchettari. A mio avviso la morte civile dell’intelligenza, per il semplice fatto che “giusto” e “responsabile” non significano esattamente “popolare” o “condiviso”, neppure online. Equiparare la popolarità Web (misuratela come volete) al talento vorrebbe dire eliminare l’elemento qualitativo del saper fare e la sua rispondenza con il bisogno ultimo di chi legge. Fosse anche un solo lettore. Un click – si è detto mille volte – non è infatti uguale a una valutazione positiva, oppure a un vantaggio concreto per chi legge. Vi sentite, per caso, di affermare che gli “agglomerati” del nanopublishing siano ricchi di talenti per il fatto che stiano scalando le classifiche? Mmm..

E poi che cosa significa esattamente “promuovere”, visto che una reale scala gerarchica – come si può raffigurare in una cultura organizzata (aziendale, nella democrazia rappresentativa, nella politica, in un’istituzione ecc.) – non esiste tra blog? Personalmente la vedo così: la doppia fiducia è importante per sviluppare la capacità di incontrare il proprio lettore (e guadagnare punti nella classifica “della pertinenza”), ma non genera un salto in avanti. L’elemento di efficacia che mi consente di emergere come talento è la rispondenza a un’urgenza reale. Perché il talento è un saper fare. Senza vita reale, mondo, casini di ogni giorno.. i talenti, la parte abitata, il giornalismo e bla bla Internet non trovano alcun modo di distinguersi fino in fondo. E’ questo il vero frame, la struttura sociale.

Autorevolezza basata sull’esperienza

Antonio si chiede opportunamente, nel post citato:

“il punto diventa se siamo in grado di riconoscere il talento quando si esibisce in un palcoscenico incongruo, al di fuori di un frame riconoscibile e riconosciuto (il palco di un teatro, le pagine di un giornale, le pareti di un museo). La risposta è, forse, che non siamo in grado”.

Se il mondo dei blog fosse veramente incongruo non saremmo in grado di fare molto.. Senza “grammatiche” note, cultura, regole che determinano un contesto, un’organizzazione, una scala di valori, saremmo incapaci di orientarci su ogni cosa. Offline come online. Figuriamoci nel capire chi vale. E Antonio dice: appunto! Internet, però, non è assenza di punti cardinali, di brandelli di vita reale. La mancanza di attenzione è secondaria. C’entra l’esperienza vissuta, la competenza, l’orecchio, direbbe un amante di musica classica, l’accumulo di conoscenze, la maturazione di livelli culturali adeguati, l’educazione alla lettura dei fenomeni (e non soltanto in relazione al mezzo Internet). Sono questi elementi che fanno la differenza nelle valutazioni e nei valutatori. Che cosa hanno in comune Giuseppe Verdi, il capo che ha maturato importanti esperienze, il politico promosso sul campo, il docente preparato, il selezionatore di lungo corso? Nei sistemi in cui esiste una ricompensa o uno stato di avanzamento, sono loro le persone che hanno (o meglio, dobrebbero avere) potere nell’aprire le strade agli alti potenziali. Non tutti cioè sanno riconoscere il talento. Soltanto chi ha esperienza, valori, regole per farlo.

Economie dei bisogni

E qui veniamo a un’ultima questione: la volontà di riconoscere. Chi è nella posizione di trasformare in promoted, non valuta mai prescindendo – come abbiamo detto – da conoscenze/competenze specifiche, ma anche e soprattutto da un’economia prestabilita dei bisogni. Il talento era una moneta di scambio, ricordate? Con buona pace per il talento di Joshua Bell, chi gli è passato davanti mentre suonava aveva una necessità che veniva prima delle altre, non perdere l’aereo. Antonio scrive:

«Quando suoni per un pubblico pagante, non hai bisogno di fare alcuno sforzo per attirare la loro attenzione. Ce l’hai già. In questo caso il mio problema era: cosa devo fare per farmi notare?». Ecco il vero punto: l’attenzione. E alla fine il pagamento di un qualsivoglia “biglietto d’ingresso” è una sorta di garanzia minima che il pubblico presterà attenzione – quantomeno per giustificare con se stesso i soldi spesi.

Il vero punto allora non è l’attenzione, ma il pagamento per la soddisfazione di un bisogno, visto che la stessa attenzione potrebbe essere ridotta, in ultima istanza, a un forma di ricompensa. In sostanza, che cosa sto ricevendo e che mi sento in dovere di ricambiare? A quali esigenze, nella mia economia dei bisogni reali, risponde questo blog, questo incredibile artista da strada?

Il biglietto di un concerto è prepagato per avere la certezza di ammortizzare i rischi di una capitalizzazione degli aspetti organizzativi. E così tutti i sistemi di scambio fissano prezzi di vendita. Per i blog, invece, visto che è tutto gratuito (si dice), la ricompensa non può che essere a posteriori. Se quanto prodotto si avvicina ai miei bisogni, non è esclusa una promozione ex post e una remunerazione con la moneta/talento con cui siamo soliti creare economie di scambio. Il bello di Internet è che i bisogni che si esprimono sono infiniti e così le risposte che si possono fornire. E poiché la blogosfera non è una gerarchia, l’unica oikonomia possibile è quella della circolarità aperta. Vale il modello del “ti restituisco ciò che mi pare“. Ti pago una pizza, ti faccio scrivere su Nova 24 del Sole 24 Ore, semplicemente ritorno a leggerti, riconosco che mi hai fatto passare una bella serata con quel post, ti do la mia attenzione, oppure se ti becco ti metto due dita in un occhio.

Torna sempre qualcosa, non è tutto gratis, diciamolo. E maggiori sono i bisogni, più larga è la fetta della pizza. Migliore è il talento, più spontanea sorge la domanda su che cosa potrei darti in cambio.

Pochi dollari nel cappello

Se di talenti vogliamo parlare, dunque, in riferimento ai blogger credo allora siano quelli che hanno la capacità di esercitare con la propria scrittura modificazioni che scavalcano il Web. Sono soggetti in grado di soddisfare i diversi bisogni di persone e organizzazioni a cui si rivolgono creando valore, più rapidamente, con maggiore perizia, passione, spirito d’iniziativa. Perché risolvono, facilitano, innovano, migliorano, chiariscono. Anche senza incrementare la loro Google PageRank.

A differenza di ciò che succede, per esempio, nel mondo del lavoro, per questo non ricevono potere, responsabilità, denaro che aumentano la loro posizione in una scala gerarchica perché restano blogger high potential. A molti sta bene così. Accade, però, a volte, che taluni blogger diventino anche parte (siano cioè promoted) di un altro tipo di organizzazione disposta a pagare un giusto prezzo per le loro capacità. Non parlo di tramezzini o aperitivi. Casi rari, che sarebbe bello raccontare, per mettere il giusto focus sul merito e sulle competenze, e non più semplicemente sull’influenza o sulla popolarità del blogger.

Ultima modifica: 2007-05-20T23:22:32+02:00 Autore: Dario Banfi

2 commenti su “Busker, talenti e blog”

  1. ciao dario, scusa te per il ritardo nel rispondere

    contesto: hai ragione tu. credo ormai siamo nella seconda era dei blog, quella che tu disegni. altroché, se sono “in media res”. test provocazione: mi chiedo se molti dei blog più famosi di oggi otterrebbero gli stessi riconoscimenti se ricominciassero anonimi (quindi sganciati dal contesto). credo di no, non per meriti o demeriti ma per l’aumento di voci che si è verificato nel tempo (e aumenterà). quindi hai ragione, il contesto (chi sono cosa faccio dove lavoro le mie reti di relazioni, …) è importante, hai ragione tu

    io facevo riferimento a un’idea forse oggi minoritaria, in proporzione: che il blog sia strumento ottimo per l’espressione dei talenti, in una maniera destrutturata ed efficace, proprio perché i percorsi che tu disegni spesso si sono rivelati insufficienti. nel mondo c’è pieno di blog di persone qualificatissime, che parlano perché hanno molto da dire. forse però in italia è ancora presto, forse lo strumento blog non è ancora abbastanza accessibile, o non ha valicato certe frontiere “digitali”, insomma non è ancora arrivato nelle mani dei meno internettari

    per cui confido che in futuro la coda lunga ci possa aiutare a far emergere comunque certe parole high potential

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  2. “in una maniera destrutturata ed efficace, proprio perché i percorsi che tu disegni spesso si sono rivelati insufficienti”.. concordo, ma sul fattore efficacia ho qualche perplessità..

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