La seconda pausa

Sarebbe interessante applicare taluni modelli dell’informatica alle differenti modalità di lavoro contemporaneo. Per esempio, l’idea di black box – che ha sempre ossessionato gli sviluppatori open source, i ricercatori che si occupano di antivirus o gli appassionati di reverse engineering, ma facilitato la vita a chi deve fare debug o test di ogni tipo – ha una sua logica anche rispetto a taluni strati dell’applicazione lavorativa di ogni giorno.

Come una scatola chiusa, si lavora spesso in termini di input a output. Anche nel lavoro più legato alla produzione intellettuale, non soltanto alle macchine. Una volta certamente era così per tutti i contesti imprenditoriali [in particolar modo in quelli sbilanciati verso il lavoro operaio] e c’erano anche sirene, cancelli chiusi, impianti disattivati per separare le “scatole del tempo”. Oggi, se fate caso, una luce accesa c’è sempre. Internet non chiude mai, così come la posta elettronica o il BlackBerry. Questo blog è always on, per esempio.

L’unica macchina che si può spegnere è il corpo. Le sue pause sono cancelli, la posizione orizzontale è forse l’azione più efficace di disinnesco del sistema.

In questi giorni di superlavoro, giorni in cui mi vergogno persino a guardare le richieste pendenti in posta elettronica (chiedo venia a tutti, indistintamente), ho capito che la scatola si può allargare a piacere. Annullare lo slash tra I/O. Un metodo semplice semplice è quello di ridurre l’efficacia della seconda pausa, la cena, per ricominciare subito dopo, tuffandosi nella black box.

C’è chi definisce i nuovi lavoratori che operano sui processi della conoscenza e sull’elaborazione di informazioni attraverso tecnologie informatiche “operai dei dati”. Beh, diffidate di questa analogia.

Ultima modifica: 2007-10-02T09:24:34+02:00 Autore: Dario Banfi

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