Quando il capo è soltanto una rappresentazione

Il Grande Capo

Di tutti i film di Lars Von Trier Il grande capo è sicuramente quello più fruibile. La discontinuità dei frame non è poi così fastidiosa e sincopata, la narrazione perfino divertente. Un traguardo per chi ha fatto del cinema un Dogma di ricercata naturalezza.

Il cuore del film è la commedia, la possibilità di rappresentare e impersonificare la leadership e i comportamenti di servitù, se così si può dire di un’opera che non vuole essere di genere. Il capo, racconta Von Trier, è soltanto una rappresentazione sterile, funzionale, manovrabile, detestabile. Va preso a schiaffi quando è possibile. In perenne imbarazzo non conosce i suoi subalterni. Non sa negoziare. Tace, inventa, schiva, finge. Esiste soltanto per rappresentare la leadership, non per esercitarla. E quando è in difficoltà nella guerra dei consensi, non fa altro che inventare a sua volta “Il Grande Capo del Grande Capo” e ritrovare la solidarietà di soggetto vittima del proprio capo. 

Il capo non parla la ligua dominante nell’ufficio ed esercita il fascino soltanto su chi desidera ottenere progressi di carriera [divertente il fatto che il film sia stato censurato per una scena di sesso in ufficio, considerata dalla commissione di revisione cinematografica “chiaramente rappresentativa di un rapporto sessuale poco coerente con l’intero contesto narrativo”.. una segretaria che si inginocchia davanti al capo poco coerente?].

Alla fine il capo ne esce a pezzi. È un poveraccio, una macchietta, che non vede l’ora di terminare il proprio incarico perché alla fine è soltanto una pedina manovrata da chi lo governa restando nell’ombra. Film a suo modo geniale che si risolve con un vero coup de théâtre. Messaggio finale: una risata seppellirà i capi. E a ridere sarà soprattutto chi è in grado di mantenere la giusta distanza per osservare le assurdità che si vivono in ufficio ogni giorno.