La parte abitata del mondo

Parte Abitata della Rete - Sergio MaistrelloIn questi pigri giorni ho terminato il bel libro di Sergio “La parte abitata della Rete“. Una recensione gliela devo perché mi ha fatto un regalo. In 150 pagine ha saputo sintetizzare con estrema chiarezza lo sviluppo delle tecnologie Web di nuova generazione e il dibattito italiano che lo ha investito.

In due/tre giorni ho ripercorso gli ultimi tre anni di Internet ed è stato utile, visto che di colpi ne ho persi, nonostante tenessi le antenne sintonizzate contemporaneamente su questa parte della Rete e su altre cose, soprattutto perché di “rete” ho dovuto costruirmene una nuova, come Sergio ben sa.

Un testo leggibile e molto scorrevole, “alla Sergio” direi. Sensazione positiva, ma anche di amaro in bocca, perché molte delle conversazioni che in prevalenza si sono svolte online e che sono riportate nel libro sono oggi in gran parte sorpassate e mi sarebbe piaciuto contribuirvi.

Il testo è un buon testo, ricco, approfondito, completo sotto il profilo dei temi classificati propriamante o impropriamente (Sergio si tiene alla larga dalla questione) come “2.0”. Blog, Wiki, Social Software, Feed, Folksonomy, Serendipity, Podcasting, PageRank, Technorati, Flikr, Economia del dono ecc. C’è tutto quel che serve sapere per prendere residenza su Internet e chiacchierare con in “vicini” di casa in maniera evoluta e consapevole, facendosi notare, scoprendo affinità e divergenze. Una guida utile per scoprire cioè come funziona la conversazione una volta che si è messo su casa. C’è la tecnologia 2.0, la sua genesi e le opportunità aperte. Insomma è un microcompendio ben fatto e motivato, che trova anche importanti riflessioni culturali, genealogie e approfondimenti teorici.

Qualche spunto polemico (in senso buono), però, mi riservo di gettarlo qui, in Rete, per animare un po’ la conversazione appunto su questo bel testo. [Avviso: è un post po’ lunghetto, se non interessa, non girate pagina..]. E riguarda ciò che a mio avviso manca sempre nella discussione su blog e Co. e nell’approccio che anima questo libro e molte chiacchierate trasversali tra i blogger più attivi su questi temi. Tocca tre aspetti, per mantenere la metafora abitativa, che pongo sotto forma di domande: 1) quale impegno economico, sociale, personale richiede costruire casa?; 2) perché nessuno parla mai del valore catastale, della rivalutazione dell’immobile e dell’ammortamento delle spese, visto che tutti più o meno ci pensano? 3) e soprattutto, ma chi non è in grado di mettere su casa?

Mi spiego.

Tutto è ammortizzabile? Online non ci sono contributi figurativi!

Partiamo dalla prima questione: chi non accede alla conversazione. Lasciamo da parte il digital divide (gli esclusi per motivi tecnici). Pensiamo a un fattore più concreto, ai “costi” (virgolettati). E’ vero che le barriere d’ingresso sono basse come non lo sono mai state. Ma che senso ha scavare fondamenta per poi abbandonare il cantiere? Il gioco [almeno nel principio] è forzoso. Siamo sicuri che non ci sia pegno ad abbandonarlo? Facciamo un’ipotesi. Sergio Maistrello apre un suo secondo blog sulla vita di Pordenone, ma lo lascia morire dopo poco. Non è una bella cosa. Ok, c’ha provato si dice. Se lo avesse fatto il Comune, invece, sarebbe stato impallinato perché ha impegnato risorse pubbliche. Se al contrario le risorse sono personali, allora tutto è ammortizzabile. Se va in porto il progetto, dice Sergio, si produce “capitale sociale” in cui il valore è al tempo stesso pubblico e privato. E’ un bene ceduto, che resta di proprietà. Una cosa mia-di tutti.

Prendiamo il corrispettivo reale, il Welfare State, sistema di protezione per chi si trova in difficoltà economica, alimentato dai contributi di chi lavora. In tutti gli Stati moderni offre tutele (servizi) di due tipi: a) generali; b) in base ai contributi versati. E’ cosa nota che chi versa bassi contributi tra qualche anno avrà pensioni da fame. Il capitale sociale online funziona allo stesso modo: vive di versamenti costanti, individali, consente una distribuzione generalizzata, ma restituisce anche in base ai contributi [lascio agli esperti di algoritmi migliorare, spiegare la metafora]. Aumenta cioè la “posizione sociale digitale”. Il nodo però sta nel fatto che quanto viene offerto dal singolo non è del tutto estraneo a ciò accade nella sua vita reale e alla posizione in termini di costi individuali. Un blogger studente è non uguale a una blogger casalinga, a un manager a un CEO. Non è soltanto una questione digitale: in verità non c’è reale discontinuità con la parte abitata del mondo. Scrivere online impegna cioè tempo, il tempo della vita quotidiana: non tutti possono permettersi di mantenere continuità (costruendosi un cumulo per la “pensione”, per intenderci). Blogger operai o disoccupati ne leggo pochi. Online, è certo, non ci sono contributi figurativi.

Donare il tempo ha un costo individuale

Chi parla dell’economia del dono mistifica spesso questa presunta discontinuità e nasconde il fatto che pur sempre di economia si tratti. Non è filosofia del dono, neppure politica del dono. Ma oikonomia, perché anche se qualcosa è offerto gratuitamente ha pur sempre dei costi individuali e una connotazione di scambio. Si legga Jacques Derrida, uno dei più geniali commentatori e feroci critici di Mauss:

Affinché ci sia dono non deve esserci reciprocità, ritorno, scambio, contro-dono né debito. Se l’altro mi rende o mi deve, o mi deve rendere ciò che gli dono, non ci sarà stato dono, che questa restituzione sia immediata o che si programmi nel calcolo complesso di un differimento a lungo termine. Questo fatto è troppo evidente se il donatario mi rende immediatamente la stessa cosa. [..] Al limite, il dono come dono dovrebbe non apparire come dono, né al donatario, né al donatore. [Cfr. J. Derrida, Donare il tempo, Cortina, 1996]. 

In altre parole Google PageRank, Technorati, i Feed e compagnia bella rimettono nel gioco dell’economia il mio contributo. E per fortuna è così. C’è chi ha maggiori ricchezze (e lo sa, non nascondiamoci dietro a un dito), chi non conta un accidente, “pertinente”, “doxa” o “episteme”, “notizia del cittadino” o “notizia mainstream” che sia la scrittura immessa in Rete. Questo paradosso mi saltò agli occhi quando anni fa pensai di fornire al blog di Sergio un mio pezzo dal titolo “Perché non sono un blogger” in cui sommariamante dicevo che non avevo il tempo/denaro per costruirmi casa online perché avevo già debiti reali. Poi non glielo mandai perché non aveva senso. Nella logica abitativa della Rete fare gli inquilini per dimostrare che non sai pagare l’affitto non ha alcuna ragione comunicativa. E’ come scrivere a bilancio uno zero. E per assurdo allora compresi che abitarla questa benedetta Rete comporta sempre un costo, qualcosa diverso da zero, e presuppone condizioni che vanno ben oltre la tecnicalità e l’essere cittadini digitali “in potenza”. Su questo, per esempio, ha scritto Gianluca Miscione [chi è costui, visto che non ha un blog?], che giustamante studiando sociologia si è posto la questione – nel testo “Sui Limiti della Rete” – del determinismo nella Infosphera (così la chiama) e la contaminazione col mondo.

80/20 e i blogger in testa alla coda lunga 

Seconda questione, il capitale individuale. Prendiamo Chris Anderson che piace molto e Pareto, citati in coppia nel testo. Consideriamo la coda lunga, quella parte di 80 piccoli indiani su 100 che in fila generano soltanto il 20% del valore in base alla moneta corrente. Grande vittoria, si dice, mettere in luce questo aspetto, mostrando che sono una “maggioranza”. Ora la questione è simile alla precedente. Siamo dentro a un meccanismo dialettico e ognuno dei piccoli indiani ha il compito di ritagliarsi il suo spazio, di recuperare valore. La mia impressione è che per molti blogger questa sia una scelta precisa di nuova capitalizzazione. Il posizionamento deve cioè rendere. Il nanopublishing deve aggregare, scalare, raccogliere lettori. I migliori 20 tenere testa. Il tempo speso deve cioè essere reso e trovare la via del ritorno (è il circolo dell’economia, si badi bene, niente di nuovo). Nessuna persona sana di mente si appaga cioè del solispsismo telematico. L’UT DES non si elimina, io credo. Superata l’adolescenza, meglio se poi il dialogo porta anche a network sociali che offrono ricchezza non soltanto intellettuale.

E’ cosa evidente poi che Pareto valga anche per i blog. Mi domando: come la mettiamo con la dialettica che ne scaturisce [ovvero che un quinto dei blog genera 4/5 del traffico e dell’attenzione online] con la blog-coda lunga? Se ci sia o meno soluzione di continuità lungo la coda non saprei, ciò che va messo in chiaro, però, è che anche in questo caso c’è una posta in gioco. Chiamiamola “rendita catastale” o da posizione. C’è chi si gioca rendite reali, pur di far fruttare il suo loft. A che pro? E’ un filantropo? Chi ritiene che sia un investimento in termini sociali, ma – come si è detto – non va dimenticato che quello che è di tutti è anche e soprattutto mio. I “politici puri” (nel senso di soggetti che pensano unicamante al bene della cosa pubblica) sono pochi, lo sappiamo noi italiani. E chi entra nell’arena politica lo fa perché desidera certamente gestire anche soltanto una piccola fetta di potere.

La parte abitata del mondo

Ben vengano, comunque, i viaggi personali in Rete, come li chiama Sergio. Senza ombra di dubbio. Io aggiungo, però: vediamo i risvolti legati all’occupazione del suolo. Ancora una volta: la società digitale non è estranea al peso reale esercitato. Non basta togliere la fisicità, dire che siamo avatar o abbiamo una second life. Non è sufficiente ridurre la questione al tema dello sviluppo di un’intelligenza connettiva o collettiva, chiamatela come vi pare. Si devono anche riportare alla luce le ontologie che queste reti sottendono e le loro intersezioni. Ci sono vasi comunicanti tra mondo e Rete e il tema della politica, forse il più evidente, è lì a ricordarcelo. Poi c’è il lavoro, anche se se ne parla poco. Double bind, lo chiama qualcuno, doppio legame. Dietro alla persona e alla sua voce, rimossa online, ci sono i diversi mondi.

Nel testo di Sergio si parla di “comunità di pratiche”, un’espressione che io ho sempre valutato in una determinata accezione, [portate pazienza per la citazione dotta] ovvero secondo il pragmatismo di  C.S. Peirce, che ha costruitito una semiotica fatta da tre elementi: “segno”, “oggetto” e “interpretante”. Le comunità definiscono gli abiti e costruiscono con la pratica modelli di senso, ovvero strutture intepretanti. Ecco, nel mio modo di vedere, le comunità non possono che avere abiti reali, contaminare con il proprio mondo anche i segni della Rete. Vista in un’altra ottica, in fondo non è Google che mi dice realmente che cosa sia una “casa”, ma la casa in cui io vivo oggi. Fuori di metafora, non è possibile porre tutto sotto metafora. Lasciare che il network o la conversazione siano l’interpretante di livello più alto. Ce n’è sempre un altro. E lo dimostra il fatto che spegnendo il PC non divento stupido di colpo [Accadrà così in futuro?].

L’ultimo punto e sintesi della discussione è proprio questo. Chi mette su casa online è perché se lo può permettere fuori dalla Rete. Chi non può, come per le apparizioni in TV, è come se non esistesse. Ma se ci pensate questo è vero soltanto se la Rete esclude il mondo. Google PageRank non indicizza il mio mutuo insieme al valore di questo post nel motore di ricerca. Al massimo, in sei passi, potrebbe farmi conoscere qualcuno che ha i miei stessi problemi nel pagarlo. Questo per dire che la parte abitata della Rete, che Sergio ha dipinto così bene nei meccanismi, può mantenere viva una metafora, ma vive se e solo se la società non è digitale.

Excipit

Quando si nasce (anche in Rete) ci si può nascondere. In questo sono in disaccordo con Sergio. Esistono mille modi per farlo perché la libertà per fortuna non è un link che unisce testo e ipertesto. Spesso, purtroppo, le cose sono meno accomodanti. Esiste anche una necessità [voluta o imposta] che talvolta obbliga a eclissarsi: emergenze reali che accendono la luce rossa lampeggiante e suonano la sirena. Il cerchio del criceto, si diceva tra noi. E non c’è folksonomy o feed che possa aiutare a risolvere il problema. Devi staccare il modem, spegnere la vita online.

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P.S. Visto che a pagina 2 si dice che “nessuna parte del libro può essere riprodotta” (hehe), vi riporto quella che a mio avviso è una delle pagine più belle. 

Ho parlato e ho ascoltato, ho confrontato le mie idee con altre sensibilità, ho visto i fatti della nostra storia recente attraverso gli occhi di tante altre persone, ho stretto amicizie profonde, ho festeggiato nascite e partecipato a lutti: né più né meno che nella vita di tutti i giorni, perché in effetti è la vita di tutti i giorni, soltanto proiettata su una scala enormemente più ampia. La parte abitata della rete è soprattutto questo: un catalizzatore di esperienze e di vita vissuta, stratificata nel tempo e distillata all’occasione da un filtro generoso e particolarmente attento alle affinità.

Ultima modifica: 2007-04-09T20:56:12+02:00 Autore: Dario Banfi

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