Scrivere su un blog in maniera seria, consapevole e documentata è una fortuna e al tempo stesso un impegno etico. Un esercizio di libertà e democrazia, e spesso anche un’occasione unica di espressione. Che ti dai, offri agli altri e non dovresti sprecare inutilmente…
Iniziai questa avventura anni fa con lo spirito euristico di chi vuole scoprire quali relazioni esistono tra contesti professionali e mondo dei blog, tra scrittura libera e rappresentazione del mondo del lavoro, in particolare di quello autonomo, così complesso e sottostimato in Italia (qui si parlava di partite IVA tre anni prima di quanto facesse Di Vico sul Corriere). L’ho sempre vissuto come esperimento, con leggerezza, anche se qualcuno ha preso troppo seriamente ciò che ho scritto, trovando spunto anche per azioni legali.
Una parziale conclusione l’ho raggiunta dopo quasi 850 articoli, oltre mille commenti e 4 anni di scrittura online: le condizioni per un esercizio significativo di questo tipo di attività presuppone tempo e conoscenze specialistiche, volontà, passione e capacità di lettura e approfondimento. Pazienza, molta. E una sola figlia, non due.
Se è tempo regalato, deve trovare un giusto equilibrio con tutto il resto: con te, con me, i miei casini e i tuoi, con le condizioni fisiche, quelle economiche, con il lavoro che hai o non hai, con quello che fai ogni giorno e dove pensi di scappare quando sei stanco e hai bisogno di rigenerarti (Londra, aspettami!).
E’ un tempo in sintonia con motivazioni e passioni, e anche con quello che vorresti che diventasse questo mondo, perché alla fine è una voce singolare, certamente, ma con un’ambizione universale. Una voce solipsitica, ma ridondante tra mille altre voci, inutile rispetto ai grandi eventi, ma che scava, poco per volta, nei fatti e nelle ragioni, e resta qui finché il tuo server non schiatta, e sopravvive anche a te – che tu lo voglia o meno – o alla volontà di chi vorrebbe metterti a tacere o in cattiva luce, perché sei libero, molto più libero.
Per questo, e non solo per questo, scrivere su un blog – preferibilmente il tuo – è una fortuna.
Ti fa vivere giorno dopo giorno anche qui, oltre che altrove. Ti da parola. Gratifica moltissimo, soprattutto chi ha naturale disposizione alla riflessione. Lo sapete, non fate finta. Non è soltanto un fatto informativo, ma ha a che fare con il sapere comune e democratico, con il contributo che possiamo dare al suo sviluppo e (perché no?) anche alla diffusione di una conoscenza specialistica, di nicchia, in cui siamo bravi.
Dare il meglio scrivendo è una gran cosa: aiuta te a dare appunto il meglio, e qualche volta, se sei fortunato, aiuta anche gli altri. Giorni fa un lettore me l’ha scritto: grazie. È, però, anche una gran fatica: costa qualcosa in più di quanto vorresti metterci, eppure lo fai ugualmente. Non sai perché, e non ci porti a casa proprio niente o quasi. Vivi in attesa, direbbe qualcuno.
Come ha ben capito l’amico Romano Calvo (Cfr. l’ultimo numero di Mondo Operaio), c’è un grosso buco in tutto questo. Profondo. Perché nella vita reale “i doppio-lavoristi della conoscenza si guadagnano la pagnotta vendendo quello che serve, ma realizzano se stessi producendo la conoscenza che (ancora) non interessa al mercato“. E, aggiungo io, non firmano molti contratti.
Scrivono online, per esempio, e sanno fare la differenza. Il resto del lavoro, il riempitivo, ciò che serve al lettore facile, lo fanno invece i passisti del Web. Quelli che tra N’importe quoi e Perché.., preferiscono sempre il primo motivo e con forza inaudita e un pizzico di arguzia, se poi fa ridere meglio [chi porterà mai la lettura del wit freudiano nella blogosera?], vanno avanti perché sanno che è la continuità a dare valore.
Oggi – c’ho una fitta al fegato in stile post-digestione di una pizza con friarielli e salsiccia – spiace dirlo, ma “continuare a testa bassa” è il miglior modo per accreditare ciò che si fa. Guardate molti blogger di vecchia data. Se ci sei ci sarà un motivo, no? Hegeliano, molto razionale come argomento, ma pessimo oltre che radicato. Purtroppo è anche un argomento vincente. Guardate i nostri politici. Poter andare avanti è la ratifica della bontà di ciò che si fa, di ciò che si dice oppure si scrive. Nel mondo del lavoro accade la stessa cosa. In particolare nel giornalismo, lasciatemelo dire.
Al contrario il silenzio – con buona pace di chi credeva che fosse il limite ultimo dell’ignoranza (povero Wittgenstein, quello vero) – è diventato sempre di più il mero depotenziamento in un gioco di visibilità, apparenza e appetiti. Il segno di una mancanza e invisibilità, secondo una sporca regola che il mondo della comunicazione e della politica stanno iscrivendo nel nostro DNA e che il Web amplifica e accelera (meglio se con carburante “social”).
“Mi twittero d’immenso“, ho letto da qualche parte, non ricordo dove. Magnifico, vero? Se al contrario però non ci sei è perché hai ragioni a perdere. Rassegnati. Stai zitto e scompari: il tuo feed XML si rottama senza neppure incentivi statali o una qualsiasi cassa integrazione in saldo, come gira ultimamente. Basta una flessione, in una qualsiasi delle condizioni che ti spingono a trovare tempo e spazio nel tuo tempo, per ritagliarti una piccola visibilità, e zoooott… salta la trasmissione!, come se un cavo Tv venisse tagliato. Tutto rallenta, poi si ferma e appunto ti esclissi. Vince la regola del “meno parole tue, più parole agli altri” e l’ultimo chiuda la (tua) porta.
Che cosa c’entra tutto questo con Humanitech.it? Beh, c’entra. Non soltanto con questo blog, anche con te che leggi o che scrivi. Essere editori di se stessi – l’ho capito a mie spese – significa giocare a viso aperto con queste regole. Una sfida fantastica, devo dire, ma se fermate le macchine, resta poco. Scivolate nella parte destra della coda lunga. Al più conservate il passato, archiviato online, che parla al posto vostro. Il brutto è quando in verità di cose da dire ne avreste, ancora e ancora, ma non ce la fate.
Il brutto è quando capite che c’è qualcosa di iniquo nell’equilibrio di un blogger, nella deriva verso il silenzio. Un’iniquità unica. Uniqua, si potrebbe dire, prendendo a prestito il nome di uno dei pupazzi che piace così tanto a mia figlia (vedi sopra). Un blog – questo ho capito dopo anni, pensandolo come impegno professionale – è un’opportunità uniqua, che prevede un equilibrio precario, iniquo per questo, che soltanto in pochi possono permettersi in Italia in piena e perfetta autonomia: i blogger pagati per scrivere, quelli pagati per fare altro e che che non facendolo scrivono, e pochi altri. Fatela questa analisi, ogni tanto: come fa uno a postare 400 articoli all’anno? A scrivere (pure sgrammaticati, capita spesso di vedere) 30 twit al giorno?
Beh, in questo momento da queste parti molte cose buttano male. Sbagliai mesi fa a scrivere che il tempo da dedicare a un blog è inversamente proporzionale alla forza centripeta che cerca di cancellarti come soggetto portatore di valore nelle relazioni sociali e lavorative. La regola del RROI. Sì, è vero, funziona così, nella maggior parte dei casi (se avete un mestiere che vi impone una determinata visibilità), ma c’è altro, purtroppo che ha una forza maggiore. E’ la vita che ti risucchia fuori dal Web e se ne frega della tua volontà di comunicare. Che ti mette in ginocchio, se vuole, quando una rendita da posizione non ce l’hai.
Per farla breve, dopo 4.000 battute (hehe), l’avventura di Humanitech.it si ferma per un po’ – per un bel po’, se non l’avete capito. Spiace, ma è necessario.
Beh, ALT + F4.
d.
P.S. A parte l'[x] sabbatico, sono raggiungibile comunque qui o qui.