Runner, freelance e luoghi di lavoro

Si dice “correre al lavoro”, ma se ci pensate è un’espressione che non funziona più molto bene. Già 15 anni fa, Sergio Bologna e Andrea Fumagalli descrissero con cura questo fatto, parlando di domesticazione del lavoro, soprattutto nel mondo dei freelance. Poi è arrivata la sociologia del biocapitalismo, un luogo-non luogo dove la produttività si lega alla vita, passando sempre più, aggiungo io, dai dispositivi mobili per le comunicazioni. Dove corre uno col Blackberry se il suo lavoro è rispondere all’e-mail del capo? Per i freelance si passa dalla camera da letto, alla cucina per un caffè e allo studio in casa, si accende il PC e si inizia. Non si corre più, ma è tutto così facile? Amabile, desiderabile? Ne parliamo Sergio e io nel nostro libro, Vita da Freelance (Milano, Feltrinelli 2011), che uscirà il 7 aprile. E’ troppo semplice, a nostro avviso farsi suggestionare dalla falsa novità di un ritorno al telelavoro (che brutta espressione!) come fa oggi Corriere.it sul blog Generazione Pro Pro. Se si frequentano le comunità dei freelance più radicate online, si trovano testimonianze come questa:

Me ne sono andata dall’azienda dov’ero impiegata per essere più libera, vendo spazi pubblicitari, adesso sto qui in casa 60-80 ore alla settimana. Vivo nella Bay Area, come faccio a spiegare  al mio cliente di Boston che quando mi telefona qui sono le cinque del mattino? Vivo con mia madre, che ha 86 anni, a lei piace chiacchierare, entra ed esce dalla mia stanza, mentre sto in linea, il telefono squilla ed il fax vomita fogli di carta.

L’ufficio privato spesso è un inferno, altro che biocapitalismo: è più semplicemente una questione di “lavorizzazione dell’ambiente domestico”, non di domesticazione del lavoro, e questo, in molti casi è impossibile da realizzare. Domus è l’inverso di Agorà, piazza pubblica di scambi e commerci. C’è la pappa da dare al bambino, non il negozio di Gucci da sbirciare di sottecchi.

La corsa al lavoro, se ancora esiste, è oggi l’accesso allo spazio di condivisione, ovunque esso si trovi, in Rete o presso un coworking, nell’ufficio o per strada. In realtà anche da McDonald si può lavorare, ma chi lo fa? Nessuno. E’ chiaro che debbano esistere condizioni di accesso e libertà, comfort e una pista battuta molto bene su cui correre. Demolire l’immagine rassicurante del lavoro dipendente a tempo pieno ed esaltare la libertà vigilata del freelance, è fin troppo semplice. Mai nessuno ha parlato invece dell’effetto opposto, del nomadismo stanziale dei freelance che piantati davanti a un PC vagolano per la Rete senza mai muoversi. Stanno lì, spesso in un pendolarismo tra Twitter-Facebook e blog che sembra l’acefalo ping di automi che devono retweetare, assegnare like o altro per dare segni di “vita”. Andate a un raduno di geek informatici o blogger indipendenti. Fanno chilometri per accendere il PC e continuare la loro stanzialità nomade a 100 km da casa, scattando foto da postare sul Web per mostrare online la presenza, che però è un’assenza là, in quel luogo. Non ho mai incontrato in questi eventi persone sprovviste di tecnologia powered on (se così posso dire), ma perché mai dovrebbe servire, se vado a incontrare persone?

Le direttrici più prolifiche da studiare a mio avviso, e di cui parliamo nel nostro libro, sono invece altre. Sono quei percorsi che dal concetto di Digital-Nomaden, liberi professionisti digitali o altro portano a spazi e occasioni in cui nascono coalizioni, per mettere in un luogo comune, in una Comune che non è uno spazio dove correre per esserci, ma un insieme di valori da condividere per lavorare meglio. Gli Usa e l’Europa stanno dando vita a queste coalizioni. Coworking o reti sono soltanto la superficie. Rimanere su questo livello non consente di distinguere un coworking creato da una multinazionale svizzera che opera per profit da quelli avviati da associazioni professionali o dall’esperienza della banca del tempo; non separa spazi di “wwwork” online come stanno esplodendo in questi anni, da soluzioni di reale valorizzazione dell’autonomia. Che vita da freelance hanno in mente i broker di telelavoro che monitorano il vostro logon al sistema di lavoro? Davvero è così bello passare da un open space con macchina da caffè al salotto di casa, loggati a oDesk per guadagnarsi da vivere? Come facciamo poi a correre via dal lavoro, come dicono i lavoratori dipendenti il venerdì pomeriggio, se siamo già a casa nostra?

L’altra sera al mio corso in enoteca c’era un sommelier piuttosto anomalo, un vero freelance a mio giudizio. Mercenario del gusto. Si è definito anche un runner, perché davvero fa due cose nella vita: correre a livello semiprofessionale e occuparsi di vino. Un fisico invidiabile per uno come me che ha sviluppato addominali da tavolo e muscolatura delle falangi. Gli ho chiesto come mai affronta ogni anno la massacrante 100 km del Passatore (da Firenze a Faenza). Ha semplicemente risposto: “Corro per mangiare bene!“. Geniale. Per avere una disposizione d’animo che lo metta a suo agio quando vuole consumare vini pregiati a elevato tasso calorico. Non corre per smaltire l’eccesso di calorie – come facciamo (mentalmente) noi poveri mortali di città, come fanno i lavoratori della settimana, i pendolari di tutto il mondo – ma per poterne acquisire. Non va da nessuna parte! A volte nell’andare nello spazio del nostro lavoro basterebbe invertire l’ordine degli addendi per cercare maggiore libertà: corri là per guadagnare soldi che ti facciano star bene al punto di partenza, ma non è questo un paradosso?

Un’ultima chicca che mi è stata segnalata da Andrea ieri (grazie!). Domanda: chi sono i più appassionati runner statisticamente? Se si considera il rapporto tra popolazione di lavoratori suddivisi per professione e iscritti, per esempio, alla prossima Maratona di Roma 2011 del 20 marzo, beh i freelance non sono messi male, anzi si difendono piuttosto bene, sembrano runner naturali:

Statistiche Maratona 2011