L’uomo che rideva troppo

[Un racconto leggero, quasi festivo. Riflessione amara e cinica su che cosa significa spesso avere un mestiere. Perché e come, in fondo, facciamo proprio il nostro lavoro?]

L’UOMO CHE RIDE
di Heinrich Boll

Quando mi interrogano sulla mia professione, mi sento imbarazzato: divento rosso, balbetto, io che altrimenti sono noto per essere un uomo disinvolto. Invidio la gente che può dire: faccio il muratore. Ai parrucchieri, ai ragionieri, agli scrittori invidio la semplicità delle loro confessioni; queste professioni si spiegano da sole, non richiedono ulteriori chiarimenti. Io invece sono costretto a rispondere a queste domande: rido.

Un’ammissione simile ne richiede altre, perché anche alla seconda domanda ” Vive di questo Lei? ” devo rispondere “Sì “; il che risponde al vero. Vivo realmente del mio riso e vivo bene perché il mio riso, per esprimersi commercialmente, e richiesto. Rido bene, ho imparato a ridere, nessun altro ride come me, nessuno conosce come me le sfumature di quest’arte.

Per molto tempo – per sfuggire a noiose spiegazioni – mi sono definito attore, ma le mie qualità mimiche e recitative sono cosí povere che questa definizione non mi è sembrata rispondere a verità e la verità è: rido.

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