Sport, competizione ed età evolutiva

Capita spesso di ascoltare talk di personaggi dello sport che intervengono pubblicamente in materia di teamwork o di trovare coach, nella sala riunioni di grandi imprese, che raccontano come fare squadra. Julio Velasco, per esempio, è un grande oratore, ma anche Xavier Zanetti, altro buon esempio, è stato davvero ispirante al recente World Business Forum.

Ci sono mille casi di ottimi sportivi che insegnano fuori dai banchi dello sport. Questo perché esiste una forte contiguità tra quei mondi – sportivi, aziendali, associativi, politici e altro – che puntano al successo sulla base di un gruppo ben affiatato e sulla capacità di stimolare crescita e competizione in maniera sana e leale, come nello sport.

La riflessione che segue non riguarda, però, soltanto lo sport, sebbene da qui nasca, per fatti contingenti legati alla mia vita e allo sport che praticano i miei figli, ma intende costruire una metafora di mondi possibili, dove c’è competizione, qualcuno vince e qualcuno perde, e dove si costruiscono team per ottenere questi risultati.

Fare sport agonistico nella minore età

Lo sport è competizione, ma anche e soprattutto divertimento. Quale debba essere il corretto bilanciamento tra queste due anime è difficile da stabilire ed è per questo che la cultura sportiva ha deciso di fissare un paletto, chiamandolo “agonismo”. Oggi con questa etichetta si identificano alcuni percorsi e valori: il superamento del puro momento ludico dello sport, la necessità di interpretare il corpo anche come uno “strumento” di lavoro, la volontà di competere e vincere, la tendenza a creare percorsi professionali, selettivi e possibilmente ben remunerati a lungo termine.

Affrontare questo passaggio nel momento più delicato della crescita di un ragazzo – quello preadolescenziale e adolescenziale – può essere molto stimolante e formativo, ma anche faticoso, e impegnativo. Nei casi in cui si affrontano sfide complesse o mal governate da coach o società sportive, può diventare anche fonte di stress, generare irrequietezza o profondo malessere. Senza contare che tutto questo si affronta nel momento in cui si si fanno due salti quantici nella scuola, alle medie prima e alle superiori in seguito.

Sport età evolutiva

 

La squadra e la regola dell’anello debole

Allenamenti, allenamenti, allenamenti. Per chi non fa sport individuali questo significa tuffarsi in un vero team, condividere spazio e tempo di lavoro sportivo, compiti ed esercizi, schemi di gioco. Vuol dire far pratica dei ruoli e molto altro, ma non significa (ricordiamolo) condividere necessariamente le medesime motivazioni. Vuole dire allenarsi insieme, ma non giocare sempre insieme. Mettersi in fila, ma secondo un preciso ordine, fissato dal coach. Vuole dire puntare agli stessi obiettivi e questo è forse l’unico fattore uguale per tutti. La squadra, comunque, resta una composizione eterogenea, che deve trovare il migliore equilibrio possibile e manifestare un principio di forza che sia la migliore espressione di ciascuno e di tutti insieme contemporaneamente. Ma resta pur sempre composta da persone singole.

È teoria fin troppo nota, la convinzione secondo la quale forza di una squadra dipenda da due fattori che devono contestualmente manifestarsi: 1) la presenza di talenti sportivi e di una coesione altissima tra di loro; 2) la forza relativa dei peggiori. Mentre il primo è l’essenza stessa di quanto vediamo oggi sui campi di gioco, il secondo è un principio nascosto e meno immediato. Riguarda il potenziale espresso e non espresso dagli atleti, che andrebbe sempre valorizzato per il bene dell’intera squadra. Una metafora che spiega questo principio è quello della tenuta di una buona catena che dipende sempre dalla resistenza sui punti di possibile rottura e dagli anelli più deboli. Fuor di metafora, quando il 22esimo sostituto di una squadra di calcio è anch’egli un grande campione, questo significa che il team è veramente superlativo. Non si tratta di una questione di media matematica, ma di rinforzare la debolezza come principio generale di successo.

Agonismo selettivo VS agonismo competitivo

Che cosa accade, però, quando una catena ha numerosi anelli in titanio e qualche altro in ferro, se non addirittura in stagno? Qualcosa va messo a registro, ovviamente, perché non subisca strappi. Ma come? Ebbene questo è il compito di una società sportiva, in primo luogo, ma ancora più direttamente è una responsabilità del coach. Entrambe devono condividere una stessa linea d’azione e scegliere quale strategia competitiva adottare.

Esistono due possibilità (o almeno questo è ciò che riesco a vedere nel mondo dello sport agonistico dei minorenni). La prima linea d’azione è di interpretare le squadre come ambienti di coltura in vitro (cosiddetti “vivai dei futuri professionisti”). Qui si affinano percorsi di selezione per produrre i futuri campioni. I valori principali sono la vittoria e la possibilità di emergere. La competizione è esterna, ma anche interna. Si lotta per un posto in squadra e tendenzialmente si mantengono velocità diverse e corsie preferenziali differenti per gli atleti. Il vero obiettivo non è costruire una squadra, ma definire una selezione che possa sostenere il peso di una gara, di un campionato o dei campionati di altre squadre, magari giocando “in prestito”. Questo tipo di agonismo è tipicamente selettivo.

Il secondo è un agonismo che privilegia la competizione come momento di confronto, in cui si mettono alla prova gli apporti individuali e gli assetti collettivi. Questa seconda linea privilegia il percorso di crescita di tutto il team, per proporlo come una squadra nel suo complesso, inclusi i suoi punti deboli. Esisteranno prime linee, ma anche regole sostitutive chiare. Prevale una forte determinazione verso i risultati, ma contemporaneamente viene mantenuta viva la necessità di rendere forte l’anello debole. Questo modello è studiato e adottato anche nelle grandi aziende di successo, dove esistono piani di successione ben precisi per ruoli delicati e per i maggiori “campioni d’azienda”, ma si investe comunque anche sulla possibilità di rendere migliore ogni collaboratore interno. Questo tipo di agonismo competitivo punta sui migliori e sulla loro sostituibilità, mette sempre alla prova e motiva tutti, perché l’obiettivo è di sostenere una vittoria, non quello di selezionare dei campioni.

Pro e contro di chi punta sulla competizione di gruppo o  sulla selezione individuale

Le società sportive che puntano sulla selezione sono quelle di grande dimensione, con un numero elevato di squadre e che fanno dello sport un vero business. Al contrario chi punta su coesione e valore competitivo ha più i connotati territoriali, quasi un imprinting campanilistico, oppure si tratta di coach con una storia sportiva significativa alle spalle. Al di là delle situazioni, comunque, il vero nodo resta il rapporto che queste due logiche dovrebbero avere con l’età evolutiva. Quando introdurre lo sport agonistico? E quando o perché avviare i propri figli verso l’una o l’altra direzione?

È opinione largamente condivisa che lo sport agonistico non debba essere introdotto fino all’età di 10-11 anni. Prima è giusto che rimanga soltanto un gioco. In seguito le cose si fanno più complicate, per i ragazzi e i genitori. Difficile scegliere (o semplicemente distinguere) i due mondi, anche perché il meccanismo di selezione – che esiste da sempre, andando avanti a livello agonistico, e in alcuni club definisce appunto un approccio primario – interviene troppo presto o viene mascherato dai club. Molte società millantano percorsi di crescita sportiva, quando in realtà puntano a costruire piani di selezione finalizzati unicamente a dar vita a squadre che portino risultati e campioni. Chiamano questa formula “agonismo”, come giustificazione (“non siamo mica all’oratorio”, si dice), ma storpiano un secondo modo di interpretare lo sport agonistico, più equilibrato e forse adeguato a chi ha una giovanissima età.

Sul piatto di chi fa sport, tra 10 e 17 anni, si trovano dunque istanze diverse: gli obiettivi personali, le finalità delle società sportive e i metodi dei coach. E non è detto che coincidano sempre tra di loro. Anzi, a mio avviso, nella maggior parte dei casi, le tre variabili non sono mai trasparenti (agli stessi ragazzi, rispetto a ciò che vogliono) o dichiarate (dalle società) fin dal primo giorno in cui si entra nello spogliatoio. Non c’è comunque un approccio allo sport migliore in assoluto, poiché dipende sempre da questi tre elementi, mescolati tra loro, dalle attese personali e dai progetti societari. E’ bene conoscere, però, pro e contro dello sport selettivo o di quello competitivo. Proviamo a schematizzarli.

Sport agonistico selettivo

PRO

  • attenzione dedicata al singolo atleta;
  • crescita sportiva accelerata e mirata;
  • intensità di occasioni offerte dal coach e dalla società per perfezionare capacità e talento;
  • apprendimento di come convivere con lo stress sportivo, il protagonismo e il successo;
  • disponibilità di prospettive legate al futuro;
  • occasione di crescita sotto il profilo della leadership.

CONTRO

  • perdita di interesse della società e del coach per gli atleti meno promettenti;
  • scarso turnover o messa alla prova degli atleti (definiti secondo fasce di competenza);
  • esclusione dei peggiori dalle competizioni;
  • mortificazione delle competenze per chi non ha elevati rendimenti;
  • possibile assunzione di ruoli marginali e subalternità rispetto agli altri compagni di squadra;
  • impossibilità di crescita attraverso esperienze primarie da parte di chi viene marginalizzato;
  • conflittualità di tipo personale con compagni di squadra e coach.

Sport agonistico competitivo

PRO

  • attenzione dedicata al team nel suo complesso;
  • crescita sportiva organica e motivante;
  • misurazione di limiti e capacità in termini relativi all’interno di una squadra;
  • esperienza di coesione e raggiungimento di obiettivi condivisi;
  • solidarietà e sostegno del gruppo verso il singolo;
  • occasione di crescita anche per gli atleti meno performanti e pari opportunità nel competere;
  • verifica continua dei ruoli e delle capacità secondo una logica sostitutiva e partecipativa.

CONTRO

  • mancanza di attenzione specifica verso i fuoriclasse sportivi;
  • minore focus sui piani di carriera e di rendita economica di un atleta;
  • minore facilità nel marchiare un successo con il proprio nome e cognome;
  • progresso di crescita sportiva individuale meno rapida;
  • minori occasioni di vivere situazioni “uniche” (giocare in prestito in altra squadra, partecipare a tornei per soli fuoriclasse ecc.).

Il punto di vista del ragazzo

Una mia personalissima impressione, rispetto ai tempi (25 anni fa) in cui ho praticato sport a livello agonistico, è che oggi si siano abbreviati enormemente i termini di ingaggio dei ragazzi sotto il profilo dell’impegno agonistico e che si cerchi sempre di più di mascherare i processi di selezione, la voglia di creare campioni e di vincere a tutti i costi, dentro percorsi sportivi competitivi di squadra. Il valore che oggi hanno i campioni e un’esasperata necessità di guadagnare dallo sport portano a questi eccessi: gli stessi coach e le società cercano soltanto di costruire team vincenti, facendo pagare a caro prezzo, ai ragazzi, i percorsi di selezione.

In tutto questo, ciò che viene ampiamente sottostimato è il processo di crescita individuale, non soltanto di tipo sportivo, ma anche caratteriale o psicologico, che devono affrontare i ragazzi tra i 12 e 17 anni. Nell’età evolutiva iniziano a relazionarsi agli altri con modalità nuove, a vivere competizioni ed emozioni in maniera diversa e costruiscono modi e stili con cui affrontare regole e sfide che li accompagneranno per tutta la vita: lo sport è uno spazio di crescita formidabile, soprattutto per formare la stima verso se stessi, ma può determinare anche forte stress per la difficoltà nella gestione dei conflitti e creare corti circuiti nelle relazioni con i compagni di squadra o con il coach.

Lo sport agonistico in età evolutivaIn questo periodo di crescita tutto accelera e il bisogno di punti di riferimento aumenta. Un buon coach può fare la differenza nel bene o nel male. Sia che si tratti di un percorso selettivo sia di sport competitivo. Nella maggior parte dei casi, questo dipende da un unico fattore: la trasparenza nella comunicazione e un chiaro indirizzo sotto il profilo degli obiettivi. I conflitti in età preadolescenziale sono dovuti all’incapacità di interpretare le situazioni, prendere posizione, scegliere consapevolmente e agire con determinazione. Trovare qualcuno che ti parla chiaramente è ciò di cui hanno bisogno.

Avere a fianco un allenatore che, al contrario, si fa scivolare addosso la responsabilità di spiegare alla squadra e ai singoli atleti le scelte che fa è sicuramente una fattore disturbante per la crescita dei ragazzi. Non aiuta, perché li lascia nel limbo delle interpretazioni. Lo stesso si può dire della volontà di mascherare i processi di selezione o di attuare marginalizzazioni di atleti senza motivarle. Tutto questo viene vissuto con fatica da un ragazzo nel pieno della sua crescita. Ricevere una convocazione via WhatsApp, trasmessa ai genitori (come si fa oggi), è diverso dal discuterla a bordo campo, insieme, a fine allenamento. Coinvolgere tutti nella prova degli schemi e diverso dal coccolare un ristretto numero di bravi goleador per spiegare soltanto a loro come incornare la palla in rete su calcio d’angolo.

Un buon coach trova sempre l’occasione per definire un piano di lavoro aperto e trasparente, di informare i ragazzi rispetto alle scelte che fa (convocazioni, scelte sulla prima squadra, messa a riposto di chi non si è comportato lealmente e altre situazioni) e agli obiettivi della società sportiva. Coltiva rapporti attraverso la vicinanza e l’autorevolezza, senza sottrarsi al dialogo o alle comunicazioni. Non opera per ripicca, per punire o escludere, ma per chiarire e tracciare percorsi virtuosi per tutti, anche di chi è incaricato di raccogliere soltanto i palloni a bordo campo. I ragazzi beneficiano di comportamenti non equivoci, motivati e trasparenti perché viene detta loro la verità, sempre e comunque, anche se si tratta dei propri limiti sportivi o di altri punti di debolezza che manifestano.

La complessità degli ambienti agonistici

Nelle scorse settimane è stato pubblicato sul Corriere della Sera un appello da parte di numerose atlete a “non mollare lo sport” soprattutto a livello femminile, visto che, nel passaggio alle scuole superiori, un numero crescente di atlete smette di praticare attività sportive di livello agonistico. Il motivo per cui smettono, però, non viene spiegato.

A mio avviso non si tratta soltanto di una maggiore attenzione dedicata allo studio, ma anche di un clima che negli ultimi decenni ha trasformato (deformato?) radicalmente gli ambienti agonistici. La volontà di prediligere i  percorsi di selezione finalizzati a sfornare i futuri professionisti viene anteposta allo sport di squadra e al modello di agonismo “semplicemente” competitivo.

Non solo: tale scelta viene introdotta troppo presto. Si sbattono in faccia ai ragazzi, giovanissimi, i propri limiti, senza offrire loro grandi chance di crescita in team. Il tempo di acquisire un equilibrio di squadra non dura neppure un paio d’anni: soltanto chi fa vincere partite e campionati trova i favori del campo e delle società. Agli altri sono offerti spazi per allenarsi, ma non per migliorare la propria capacità di competere. Gioco forza le seconde linee si scoraggiano, perdono motivazione e vivono lo sport con il timore di non farcela, più che come un’occasione per mettersi alla prova e migliorarsi.

Se a questo si somma una scarsa capacità di comunicare di un coach o di una società sportiva, per nulla abituati a valutare aspetti educativi e di crescita psicologica insieme a quelli della formazione sportiva, il risultato è presto detto: il 50% di chi pratica sport agonistico fa drop-out tra i 14 e i 15 anni e uno su cinque lo segue appena dopo, tra i 15 e 17 anni.

Convivere con i successi e i limiti sportivi

Bisogna solo tessere le lodi di quei ragazzi che tra gli 11 e i 15 anni entrano e vivono negli ambienti dello sport agonistico. La loro è una duplice sfida, perché li pone da una parte di fronte a un impegno pesantissimo sotto il profilo dell’allenamento, dei rapporti con il tempo libero (che non hanno più) e delle sfide sportive, dall’altra perché si trovano a dover interpretare un percorso e degli ambienti sociali complessi (spesso meno ospitali di un istituto scolastico), guidati da logiche che non comprendono subito e che non sanno interpretare.

Convivere con i successi e gli insuccessi è la parte più difficile per questi ragazzi che puntano alla maturità sportiva. Che ce la facciano o meno, ciò che conta, alla fine, è capire davvero come è perché siano arrivati a quel punto. Senza una consapevolezza del proprio talento o dei propri limiti, lo sport agonistico non crea equilibrio nella persona, ma disagio (anche in chi ha successo) e frustrazione. Sforna solo campioni incapaci di gestire i momenti di sconfitta e il calo del rendimento, oppure, nel caso abbiano smesso di giocare, persone che nella vita non digeriscono affatto le valutazioni negative e le critiche altrui.

Eccesso di euforia e rassegnazione sono i due limiti estremi, entrambi sbagliati, in cui inciampa un ragazzo preparato male dal suo allenatore. Chiunque abbia fatto sport può continuare a farlo, anche senza diventare un campione. Si può esserlo perfino diventando un bravo tifoso, diceva Julio Velasco. Quando, invece, perdi la voglia di guardare la stessa squadra in cui giochi o inizi a odiare il tuo sport, significa che ti hanno messo in trappola. Non sei riuscito a uscire dalle ambiguità che ti circondavano e non hanno badato al modo con cui affrontavi i tuoi limiti. Ricorderai i conflitti, non le soluzioni. Quel pessimo allenatore, non quel bellissimo sport.

Per me è stato diverso. Dopo 12 anni di sport (7 a livello agonistico) ho dovuto interrompere la bellissima parabola del mio impegno sportivo in ambito cestistico all’età di 21 anni. Con il mio scarso 1.70 di altezza non potevo andare oltre il primo anno di Università, ma ricordo quegli anni come splendidi. Ho fatto grandi panchine, ma anche partite in cui mi sono guadagnato l’appellativo di “Maradona del Basket” (senza tirarmela, è durata comunque poco…).

Ho imparato a convivere con i miei limiti, ma quando prendo in mano un pallone o vedo mio figlio di 8 anni giocare mi si allarga il cuore. Ho fatto enormi sacrifici, sofferto quando mi hanno sostituito in prima squadra, pianto quando gli insuccessi erano più delle soddisfazioni, ma ho sempre affrontato a viso aperto tutto questo trambusto emotivo. Sono stato aiutato dal mio coach, dalla famiglia, dai compagni di squadra. Chi accompagna i ragazzi di 10-17 anni in questo percorso di crescita non può sottrarsi a questa responsabilità. Non sta allenando una squadra di professionisti, ma di figure fragili che cercano di rinforzare se stesse e non soltanto i propri muscoli.

Ultima modifica: 2019-02-22T18:25:47+01:00 Autore: Dario Banfi

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