Che cos’è il Quinto Stato

Un’altra bella (e generosa) recensione di Vita da freelance (Feltrinelli, 2011) da parte di Elisabetta Amborosi pubblicata ieri su Europa Quotidiano.

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Che cos’è il Quinto Stato
Elisabetta Ambrosi , Europa, 31 maggio 2001, pagine Libri

Dove va il lavoro autonomo in un’analisi culturale di Bologna e Banfi

Avvertenze prima dell’uso: qualsiasi tipo di contratto abbiate, dopo aver letto il libro di Sergio Bologna e Dario Banfi, Vita da freelance (Feltrinelli, pp. 288, euro 17) molte delle vostre certezze saranno messe in dubbio. E, quasi certamente, vi sentirete chiamati in causa.Se siete dipendenti, vi troverete rappresentati come ancora bisognosi di indicazioni dall’alto, e invitati a ragionare su questa esigenza. Se siete precari, in quella vasta zona grigia che va dai co.co.co al lavoro interinale alle partite Iva “mascherate”, vi si chiederà di uscire dall’ambiguità, e fare una scelta di campo: o dipendenti o indipendenti, tertium non datur, nonostante la vastità della “zona grigia” non aiuti. Se invece siete già autonomi abbastanza convinti, anche se sconcertati per il (mal)trattamento riservatovi dallo stato italiano, troverete intelligenti e sorprendenti buone argomentazioni a favore della vostra scelta, ma senza un filo di vittimismo e con un invito a lavorare sodo.
Quello di Banfi e Bologna è molto di più dell’ennesimo, pur ben fatto, libro sul lavoro. Non solo racconta in maniera critica e spietata le trasformazioni che ha subito il mondo produttivo in Italia e nel mondo, sgretolando ogni cliché di destra e sinistra. Ma lo fa sostenendo che, quando si parla di lavoro, ben prima di considerazioni di tipo economico o materiale bisogna considerare i fattori identitari e psicologici: perché il lavoro che facciamo o che vorremmo fare ci dice chi siamo e come siamo cambiati.
Questo punto di vista è applicato soprattutto a chi ha scelto di essere un lavoratore autonomo della conoscenza di “seconda generazione”. Secondo i due autori, si tratta probabilmente di individui che non vogliono essere eterodiretti, ma preferiscono gestire autonomamente il proprio lavoro e la propria vita, assumendosi in pieno il carico di responsabilità e di rischi che ciò comporta, e che non possono scaricare su nessuno. Soprattutto, e contrariamente all’immagine stereotipata del lavoro autonomo, il freelance non è affatto quell’individualista ossessionato dal culto della competizione come spesso viene dipinto. Pur riconoscendo che alcuni indipendenti si fanno sedurre dal fascino di una certa “ideologia del professionalismo”, nella maggioranza dei casi ci si trova di fronte a persone con un forte desiderio di socialità e di uguaglianza. Persone che, abbandonata ogni idea standard di carriera, si appassionano unicamente dei progetti e delle idee, senza aver il tempo, viste le enormi difficoltà, di piangersi addosso.
Da questo punto di vista, proprio i freelance di ogni settore esprimono una rivoluzione antropologica probabilmente ineluttabile, perché così sarà il lavoro, e il mondo, del futuro. Anzi, secondo i due autori, questa sarebbe in un certo senso la via migliore per uscire dall’impasse nella quale molti paesi, tra cui l’Italia, sono stretti come una morsa: un lavoro dipendente attaccato e impaurito, con lavoratori sottoposti a mobbing. E una massa di precari che cercano di entrare, e ci riescono solo attraverso sentenze dei tribunali.
Colpevoli della situazione attuale sono senz’altro i vecchi sindacati, cui Banfi e Bologna rivolgono accuse pesanti ma sostenute da argomentazioni sofisticate, da profondi conoscitori dei meccanismi della rappresentanza. Non solo i sindacati non hanno fatto nulla per il lavoro autonomo; ma quando si sono svegliati, con ritardo, hanno cercato di applicargli misure ricalcate sul paradigma del lavoro dipendente, e quindi inutili o controproducenti.
Come nel caso dell’aumento della contribuzione dei co.co.pro, un salasso per le tasche del collaboratore, che versa per rimpinguare i debiti di altre casse previdenziali. Molto meglio allora avere organizzazioni leggere, sulla falsariga della Freelancencers union, il primo sindacato freelance nato negli Stati Uniti.
Che fa azione di lobby e fornisce servizi come polizze assicurative a prezzi ridotti.
Farebbe tuttavia assai male chi volesse, magari a destra, appropriarsi strumentalmente di queste tesi, che nulla hanno di ideologico. Come sbaglierebbe il mondo dell’informazione a sentirsi chiamato fuori dalla critica dei due autori.
Che anzi puntano il dito contro una rappresentazione giornalistica e mediatica del lavoro falsa e insieme ipocrita: falsa, perché agganciata anch’essa, come tutti, al paradigma del lavoro dipendente, tanto da ignorare il lavoro autonomo, per concentrarsi unicamente sugli operai o sui precari (confusi, tra l’altro, nelle varie invettive, con i lavoratori indipendenti, nonostante si tratti di due mondi ben distinti). Ma soprattutto una rappresentazione ipocrita, perché altrimenti non si spiegherebbero titoli roboanti sulla precarietà fatti da quelle testate che pagano i collaboratori pochi euro a pezzo. O dove nei comitati di redazione è assente un rappresentante dei collaboratori, i quali dopo dieci anni di lotte non sono riusciti ad ottenere diritti minimi, come il pagamento quando il pezzo non esce, o il diritto ad essere avvisati dei cambiamenti.
Anche in questo caso, però, niente vittimismo. I due autori sono convinti che non esista nessuna vera riforma dall’alto. E che solo una presa di coscienza dei lavoratori stessi, dipendenti o autonomi, potrà produrre il cambiamento da loro sperati. Che, per quanto riguarda gli “indipendenti”, non corrispondono al ritorno ad un vecchio welfare, ma piuttosto ad un mondo del lavoro libero e trasparente, dove gli ammortizzatori siano sempre più universali, legati ai diritti di cittadinanza e non al tipo di contratto che si ha in mano.
Nel frattempo, Banfi e Bologna si augurano che i lavoratori non si buttino via lavorando gratis o accettando forme camuffate di sfruttamento. Che puntino ad acquisire un patrimonio di conoscenze “tacite”, non esibite con arroganza e che includano competenze umane e relazionali.
Che rinuncino all’autorità e ad una notorietà posticcia, per diventare, invece, soprattutto autorevoli.
Anzitutto davanti a se stessi.
Ultima modifica: 2011-06-01T11:49:36+02:00 Autore: Dario Banfi

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